Gli ultimi dati della Bce parlano chiaro, e smentiscono categoricamente la retorica della “ripresa”: l’Eurozona è ormai a un passo dalla deflazione. Come si può facilmente dedurre, se l’inflazione indica un aumento dei prezzi di beni e servizi, la deflazione indica una diminuzione del livello generale dei prezzi ed è causata da una riduzione della domanda. Questo a sua volta determina una diminuzione della produzione, che porta a una riduzione dei salari e dell’occupazione, che deprime ulteriormente la domanda, e così via. Inoltre, aumentando il valore reale del debito – sia pubblico che privato (come per esempio un mutuo) – la deflazione (o comunque un’inflazione troppo bassa) rende quasi impossibile per l’Italia nel suo complesso e per i singoli cittadini rimborsarlo. E infatti, come sappiamo, il rapporto debito/Pil dell’Italia continua a lievitare, anche a fronte di una riduzione dello spread.

Questo circolo vizioso prende il nome di “spirale deflazionistica”, ed è generalmente considerato un processo recessivo-depressivo estremamente pericoloso (molti storici concordano sul fatto che fu proprio il caos sociale e politico determinato dalla spirale deflazionistica degli anni trenta a contribuire all’ascesa di Hitler, e non l’iperinflazione degli anni venti), e – cosa ancor più preoccupante – molto difficile da invertire una volta che ha preso il via, come dimostra il caso del Giappone. E infatti si fa sempre più numeroso il coro di voci – dall’Ocse al Fondo monetario internazionale, dall’Economist al Financial Times – che chiede alla Bce di fare qualcosa per arginare il rischio deflazione nell’eurozona. Questo spiega perché nella riunione di giovedì il board della Banca centrale europea abbia aperto per la prima volta all’uso di misure monetarie non convenzionali, primo fra tutti il quantitative easing, ossia l’acquisto di titoli di stato da parte della banca centrale. Ma questo rappresenterebbe veramente, per i paesi dell’eurozona, la panacea a cui sembrano alludere molti commentatori? Dipende. Innanzitutto, dobbiamo specificare cosa intendiamo per quantitative easing, e qual è l’obiettivo che ci prefiggiamo di ottenere ricorrendovi. Draghi e altri della scuola monetarista vedono il quantitative easing come un’arma puramente monetaria, finalizzata ad alleviare le condizioni del sistema finanziario, non degli stati. L’idea è che aumentando le riserve – e dunque la liquidità – delle banche, queste saranno più propense a prestare soldi alle imprese e alle famiglie, rimettendo così in moto l’economia. Il problema è che anche in quei paesi che hanno fatto un uso massiccio di quantitative easing dall’inizio della crisi (vedi gli Usa) questo non è avvenuto. Il motivo è che in una situazione in cui la domanda e la crescita ristagnano – e dunque le prospettive di guadagno offerte dall’economia reale sono misere (questo vale soprattutto per l’Europa ma in misura minore anche per gli Stati Uniti) – le banche sono riluttanti a investire e a concedere prestiti, a prescindere dalle iniezioni di liquidità attuate dalle banche centrali. In questi casi è il settore pubblico che deve farsi carico di rimettere in circolazione il denaro, per mezzo di politiche fiscali espansive (è in queste che risiede, in buona parte, il “segreto” della ripresa statunitense). In questo senso, dunque, l’acquisto di titoli di stato da parte della Bce avrebbe senso solo se servisse a sostenere una politica di stimolo fiscale in disavanzo (in cui il settore pubblico, in sostanza, spende di più di quanto incassa sotto forma di imposte), ancor meglio se attuata a livello europeo. Rimanendo all’interno dei trattati esistenti, questo vorrebbe dire innanzitutto allentare gli assurdi vincoli di bilanci imposti dal fiscal compact. Ma la verità è che senza una riforma radicale dell’architettura europea – che permetta alla banca centrale di finanziare direttamente gli stati e agire da prestatrice di ultima istanza sul debito dei singoli paesi e sugli eurobond emessi collettivamente dall’Eurozona, e preveda un meccanismo di ristrutturazione del debito – l’Eurozona è destina a implodere, con conseguenze devastanti. Per questo, oggi più che mai, dobbiamo dire: siamo europeisti, chiediamo l’impossibile.

*autore di The Battle for Europe, pubblicato in Inghilterra da Pluto Press. www.sbilanciamoci.info