Il movimento delle mondine si strutturò in età giolittiana. Il fascismo cercò di imbrigliarne la leggendaria combattività sindacale con politiche paternalistiche e ispirate agli stereotipi coloniali sul corpo delle donne. In Emilia molte donne parteciparono alla resistenza contro il nazi-fascismo. Nell’immediato dopoguerra, l’emancipazione dallo sfruttamento di un lavoro stagionale – quaranta giorni all’anno – diventò il centro del conflitto politico tra la sinistra e i democristiani. Negli anni Sessanta l’industrializzazione della monda sostituì gran parte delle 180 mila lavoranti, ma i sindacati cercarono di trattenere le donne nelle risaie pensando che l’aumento del salario orario bastasse a rendere sopportabile un lavoro bestiale.

Queste sono le istantanee della storia raccontata da Barbara Imbergamo nel libro Mondine in campo, (Edit press, pp. 293, euro 18) che esplora le ragioni di una centralità simbolica, sociale e politica assunta dalle mondine nella prima metà del Novecento. In una tradizione politica basata sulla soggettività operaia, quella della sinistra italiana, la storia delle mondine conferma che la conflittualità sociale e politica non è stata la prerogativa esclusiva della classe operaia cittadina e maschile.

Il libro di Barbara Imbergamo andrebbe letto come un capitolo della storiografia inaugurata da Edward P. Thompson, in Nascita della classe operaia in Inghilterra (un’opera che manca dalle libreria da moltissimi anni e che andrebbe nuovamente pubblicata). Durante il secolo il conflitto tra capitale e lavoro è stato molteplice, plurisenso e dislocato su scale temporali distinte. Non esisteva un soggetto unico del lavoro, ma una pluralità di condizioni operose e atipiche irriducibili a un contratto, a un’identità o una rappresentanza omogenea. Le mondine non erano operaie di mestiere. Erano invece sarte, contadine, raccoglitrici, stagionali, madri. Rientravano nel vasto mondo delle occupazioni multiple e temporanee, non dipendenti e precarie, quelle che sembravano essere scomparse con l’affermazione del lavoro salariato nel Novecento e che invece sono sempre esistite e ancora oggi costituiscono la realtà maggioritaria del lavoro.

Sia chiaro, le donne avventizie, precarie o giornaliere che lavoravano come mondine non hanno nulla a che vedere con quelle che oggi lavorano a partita Iva, con un contratto a termine o in stage. Ciò che invece le accomuna è la forma attraverso la quale erogano il lavoro: per conto terzi, cioè da «contrattiste indipendenti». Nel Novecento questa era considerata un’anomalia, oggi invece è la realtà dove i lavoratori sono apolidi senza diritti né cittadinanza. Un contesto politico definito «Quinto stato» dall’autrice del libro.

Scrivere un libro sulle mondine, spiega Imbergamo, serve a capire come soggetti estremamente deboli siano riuscite a conquistarsi un ruolo politico e a creare un potente immaginario fondato sull’emancipazione femminile e non solo sul salario o sul contratto – si pensi al film di Giuseppe De Sanctis Riso Amaro con un’indimenticabile Silvana Mangano. Le loro battaglie sindacali, la capacità di auto-organizzazione sono utili per rispondere alle domande di chi oggi è imbrigliato nella stessa forma generale del lavoro.