Una questione rimasta relativamente in sordina nel dibattito relativo al Recovery plan nazionale riguarda l’andamento del debito pubblico e come gestirlo. Il suo rapporto con il Pil ha raggiunto nel 2020 la cifra del 156%, livello sino a ieri inusitato, mentre il deficit di bilancio è stato nell’anno pari al 9,5% del Pil e l’incidenza degli interessi sui debiti si è collocata sul 3,5% sempre del Pil. Anche il debito degli altri paesi a noi più vicini è fortemente aumentato, ma senza neanche avvicinarsi ai nostri livelli. Così quello francese è arrivato al 115,3%, mentre quello tedesco è salito soltanto al 71,2%, anche se per i tedeschi è stato come essere colpiti da una catastrofe.

Secondo le stime del Piano, tale rapporto dovrebbe aumentare in Italia sino al 160% nel 2021, parallelamente anche ad un indice deficit/Pil record dell’11,8%, peraltro nell’ipotesi di una crescita dello stesso Pil del 4,5%. Poi, grazie ai supposti effetti positivi dello stesso Piano, il primo indice dovrebbe scendere sino a tornare più o meno al livello pre-covid nel 2032, raggiungendo in tale anno il livello del 134,6%.

Ma si può esprimere qualche dubbio sulla possibilità che l’Italia riesca ad abbattere, e in tale misura, il livello del debito, dubbio condiviso da almeno alcuni degli attori dei mercati finanziari. Molte volte i governi del nostro paese hanno presentato piani per la sua riduzione, ma essi sono stati poi regolarmente smentiti dai fatti. Si può forse prevedere, anche se la previsione è del tutto soggettiva, che anche questa volta esso continuerà a crescere, peraltro con un ritmo più blando di quanto sta facendo nel biennio 2020-2021.

In ogni caso, il Tesoro dovrebbe emettere quest’anno titoli per 600 miliardi di euro, un bel record; ma la Bce, che detiene più di un quarto dei titoli italiani, dovrebbe assorbirne 200 e le banche italiane forse molti di più, per cui il problema delle coperture, almeno a breve termine, appare sostanzialmente risolto.

Su di un altro piano, la grande crescita dell’indebitamento dei vari paesi nel 2020 e nel 2021 è forse l’aspetto più eclatante del fatto che il covid, come ha ad esempio scritto Annamaria Simonazzi nel numero di maggio de L’Indice, ha impietosamente esposto le gravi conseguenze economiche e sociali del modello di sviluppo che ha sino ad oggi guidato l’Ue. L’ economista si chiede se possiamo ora sperare che lo stesso covid porrà fine alla follia dell’austerità e che si possa ritornare a politiche più keynesiane. Se ne può per molti aspetti dubitare.

Intanto il patto europeo di crescita e stabilità, che prevede tra l’altro un tetto massimo al rapporto indebitamento/pil del 60% e del 3% al rapporto deficit di bilancio/pil, è per il momento sospeso, probabilmente sino alla fine del 2023, ma a Bruxelles è attivo un gruppo di riflessione su come e quando mettere in piedi delle nuove regole. Da quello che trapela sembra che i francesi abbiano chiesto che gli investimenti non siano conteggiati in futuro nei calcoli dell’indebitamento, una giusta mossa. Nulla sappiamo della posizione italiana.

Intanto i falchi ed i cosiddetti paesi frugali del Nord, con alla loro testa Jens Weidmann, il belligerante governatore della Bundesbank (che spera, ma non sia mai, di diventare un giorno governatore della Bce), chiedono un ritorno alla “normalità”, auspicando tra l’altro la riduzione degli interventi di sostegno della Bce ed altre misure. Tra queste ultime, aleggia la per noi insopportabile proposta di penalizzare duramente le banche che detengono titoli pubblici del proprio paese.

Comunque, è vero che con il ritorno alla crescita dell’economia la tendenza all’acquisto di titoli da parte delle banche centrali si affievolirà. La Bank of America prevede che gli acquisti da parte di tali istituzioni passeranno in Occidente dai 9.000 miliardi di dollari del 2020 ai 3-4.000 miliardi del 2021 ed ai 400 del 2022. Per noi sarebbe una sciagura.

Alla fine, una possibile strada per l’uscita dai guai del nostro paese sono affidate al varo di almeno alcune delle misure sotto elencate: da una parte al fatto che il Recovery plan diventi strutturale, magari con la previsione che la quota di fondo perduto sul totale cresca significativamente; alla cancellazione dei titoli pubblici posseduti dalla Bce, mossa alla quale si oppongono ovviamente Weidmann e i suoi amici; alla dotazione di una capacità diretta di spesa della Ue nella fornitura di alcuni servizi pubblici, quali la sanità, la coesione territoriale, ecc.; al mantenimento nel tempo di un livello molto basso dei tassi di interesse, legato anche al permanere di un basso livello di inflazione; infine, alla continua benevolenza dei mercati finanziari. Appare difficile nel frattempo sperare in un più generale e profondo rinnovamento delle politiche sociali e di coesione dell’Unione, anche se qualcuno lo fa.

Attendiamo comunque a piè fermo le prossime notizie, sperando solo in propitia sidera, in una favorevole, cioè, anche se molto difficile, congiunzione degli astri.