Il successo internazionale della filosofa americana Martha C. Nussbaum è testimoniato dall’incessante traduzione della sua altrettanto incessante produzione intellettuale, arricchita ora dalla pubblicazione di Persona oggetto (del 1995, ma appena uscito per Erickson, pp. 118, euro 9) e di Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia (il Mulino, pp. 510, euro 38). Il primo testo consiste in una critica al femminismo di Catharine MacKinnon e Andrea Dworkin che, negli anni Novanta del secolo scorso, facendo della pornografia il paradigma del rapporto tra i sessi, consideravano l’«oggettualizzazione» il principale bersaglio non solo del femminismo ma anche dello Stato, chiamato a proibire e perseguire la produzione pornografica. A queste posizioni Nussbaum risponde con una critica basata sulla lettura di alcuni testi più o meno celebri – da L’amante di Lady Chatterley a l’Ulisse di Joyce, da Playboy a The Swimming-Pool Library di Hollinhurst – a partire dai quali sviluppa un’analitica dell’«oggettualizzazione» per mostrare che le sette modalità di relazione che può innescare – strumentalità, negazione dell’autonomia, passività, fungibilità, violabilità, proprietà, negazione della soggettività – si combinano in modi diversi a seconda del contesto e che solo quest’ultimo può determinare se essa sia compatibile o meno con il consenso e la reciprocità.

In nome del contesto

Il contesto è tutto, dunque, ma diventa irrilevante nel momento in cui la «persona» prende il posto degli uomini e delle donne e il sesso si trasforma da questione politica in questione morale risolta dalla libera, reciproca espressione del consenso. Le condizioni in cui questo si esprime, il rapporto di implicazione e non semplice contrapposizione tra libertà e potere, non possono perciò essere messe in questione. Bisognerebbe invece ammettere che anche Marx avrebbe «sottostimato» la differenza tra il lavoratore, che prende parte a un contratto in cui si dà «qualche tipo di consenso», e lo schiavo, che non può manifestarne alcuno ed è perciò oggettualizzato fino in fondo. Se il contesto fa l’oggetto, il consenso fa la persona, trasformando il contesto in una variabile secondaria e contingente. Anche quello simbolico, il modo in cui l’essere oggetto può innescare un godimento dell’asimmetria tanto «magnifico» per il sesso quanto funzionale alla riproduzione dei rapporti di potere, diventa secondario. Il «battesimo» dell’arrogante e spaventoso membro di Mellors – il John Thomas di L’amante di Lady Chatterley – e della timida e inesperta «Lady Jane» sono azioni equivalenti e simmetriche in un rapporto, tutto privato, di consensuale reciprocità.
In modi diversi, la proposta di MacKinnon era stata contestata anche dalla filosofa americana Wendy Brown all’interno di una più vasta critica del discorso liberale (States of Injury, Princeton University Press, 1995). Trattando la pornografia come sintomo della crisi del dominio maschile piuttosto che come suo paradigma, Brown metteva in guardia dagli effetti del considerare le donne come semplici «oggetti» di quel dominio. Facendo di questa condizione un dato «ontologico», MacKinnon indicava come unica possibile via di uscita l’intervento riparatore dello Stato che, con «attaccamento appassionato», continuava a essere pensato come mediatore neutro dei conflitti nella società. Il problema del potere – della determinazione sociale e storica delle posizioni soggettive e delle istituzioni – diventava dunque il fulcro della critica di Brown. Nonostante la centralità che anche lei attribuisce al contesto, la posizione di Nussbaum è molto diversa. Sebbene condivida l’idea che la natura umana non possa essere considerata un dato ontologico immodificabile, ma che vi sia al contrario un condizionamento reciproco tra quella natura e l’ambiente istituzionale nel quale si dispiega, Nussbaum articola questa concezione secondo il paradigma aristotelico definito dalle coordinate potenza/atto. Una «tendenza innata» alla giustizia si accompagna a una tendenza altrettanto innata alla sopraffazione che può essere tuttavia arginata da una «politica delle emozioni» che permetta di tradurre in atto soltanto quelle funzionali al perseguimento di una società non solo «bene-ordinata», come auspica John Rawls, ma anche giusta.
Se nessuna istituzione orientata alla giustizia può essere efficace senza un adeguato supporto emotivo, si tratta di definire in primo luogo le coordinate di un liberalismo interessato alle emozioni e Nussbaum lo fa nell’apertura di Emozioni politiche: prende le mosse dalla tolleranza di John Locke, ma rifiuta l’indifferenza del padre del liberalismo verso le emozioni che stanno alla base dell’intolleranza; riconosce l’importanza dell’amore civile promosso dalla religione dell’umanità di Rousseau e Comte, ma rigetta la loro tensione al maschilismo e al razzismo, alla coercizione e all’omologazione degli individui in favore dell’ideale irenico, egualitario e pluralistico, fondato sulla libertà di espressione della critica e del dissenso, di Herder e J.S. Mill. La tradizione liberale di Nussbaum si risolve nella ricerca di una religione civile moderata che renda possibile un «consenso per intersezione» come quello indicato da Rawls. Un consenso che non può fondarsi su visioni complessive del mondo – siano esse laiche o religiose – ma deve muoversi attorno a valori leggeri – ideali costituzionali e il perseguimento di una gamma di «capacità» – che siano il minimo comun denominatore alla base della società giusta.

Formalismo dei diritti

Il paradigma antropologico-politico del soggetto adeguato a questa società si costruisce all’intreccio tra il Cherubino delle Nozze di Figaro di Mozart-Da Ponte e i cantori baul protagonisti della poetica di Rabindranath Tagore: un cittadino che si lascia alle spalle la virile ricerca di vendetta per l’onore violato per aprirsi alla reciprocità e alla sensualità, all’ironia e all’amore, per realizzare una fratellanza nell’uguaglianza a partire da qualità tutte «femminili», capaci di andare oltre la differenza di classe.
L’approccio normativo di Nussbaum non permette di emozionarsi di fronte alla contraddizione che questa «fratellanza femminile» lascia aperta. Come d’altra parte non vi è posto per la contraddizione nella società giusta della quale elenca le caratteristiche. Uguaglianza, perché a tutti è conferita pari dignità e dunque non solo la formale attribuzione di diritti civili e politici, ma anche il riconoscimento che gli esseri umani sono attivi e al contempo vulnerabili. In alcune fasi della loro vita – infanzia e vecchiaia, disabilità e malattia – essi vivono rapporti asimmetrici di dipendenza per i quali è necessario un sostegno. Inclusione, perché il discorso razzista, benché tollerato e garantito dalla più ampia libertà d’espressione, deve essere frenato dalla legge laddove sfoci in una minaccia rivolta a un particolare individuo (in un modo non così diverso da ciò che lo Stato dovrebbe fare, secondo MacKinnon, con la pornografia) e stigmatizzato socialmente in modo da diventare progressivamente evanescente. Distribuzione, perché il persistere delle disuguaglianze materiali è ammissibile solo «allo scopo di incentivare lo sforzo e l’innovazione che accrescono il livello della società». Oltre a garantire salute e istruzione, le «nostre» società giuste avranno dunque sistemi fiscali capaci di sostenere la redistribuzione della ricchezza, ma queste politiche pubbliche sarebbero inefficaci senza che venga al contempo alimentata la simpatia necessaria a supportarle.
Così, la poesia, la danza e gli inni di Whitman e Tagore, l’arte, le cerimonie e l’istruzione pubbliche, la tragedia e la commedia, la retorica e l’esempio di grandi «eroi» come Washington, Lincoln e Roosevelt, King, Gandhi e Nehru, diventano modelli per la produzione di emozioni – la compassione, la simpatia, l’amore – capaci di sostenere politiche orientate alla giustizia e di arginare gli effetti divisivi di passioni quali paura, vergogna, invidia e disgusto. Tali passioni sono anch’esse parte della natura umana, ma possono essere governate attraverso la sapiente mescolanza di strategie che, mentre fanno leva sul particolarismo, estendono lo spazio della simpatia fino ad abbracciare la nazione e il mondo intero.
Nussbaum è stata senz’altro coerente con questa prospettiva, visto il suo impegno in favore dell’emancipazione delle «donne del Terzo Mondo» (un esempio è il suo Women and Human Development. The Capabilities Approach, del 2001), le quali tuttavia erano già autonomamente impegnate a denunciare la natura paternalistica, patriarcale e coloniale del discorso sullo «sviluppo» (celebri sono le posizioni di Chandra Talpade Mohanty e Gayatri Chakravorty Spivak). D’altra parte, Nussbaum non fa mistero di quale sia il modello di questa «nostra» società giusta: gli Stati Uniti d’America – la cui costituzione è il faro illuminante di un avvenire le cui magnifiche sorti non sono disturbate dalla persistenza del razzismo istituzionale che ha ucciso Michael Brown a Ferguson – o l’India di Tagore – un esempio politicamente corretto della possibilità di una democrazia liberale in Oriente, che si avvia a superare l’orrore della società castale grazie al progresso della sua cultura politica e la cui immagine non pare deturpata dalla prassi sistematica e impunita dello stupro o dalle politiche antioperaie del nuovo eroe del capitale, Narendra Modi. L’appassionato attaccamento di Nussbaum all’idea di progresso e alla neutralità delle istituzioni spazza via questi granelli di realtà dall’ingranaggio dell’ideale avvenire.

Grandi e piccoli eroi

La filosofa si mette però al riparo dall’obiezione della realtà sottolineando la fallacia della distinzione tra ideale e reale. L’ideale ha effetti reali – lo provano le costituzioni democratiche i cui valori, benché attuati in modo incompleto, ispirano le leggi. La realtà è carica di ideali, come dimostrano gli esempi realissimi dei grandi «eroi» delle emozioni politiche di cui ci offre un’ampia rassegna. Agli eroi minori, quelli che combattono ogni giorno contro la «dipendenza asimmetrica» determinata non dalla malattia o dalla vecchiaia, ma dal salario; quelli che nelle periferie della democrazia americana conoscono l’uguaglianza come uguali bersagli delle armi di istituzioni «correggibili»; quelle che per la loro «femminilità» sono messe al servizio – sessuale, salariato, riproduttivo – della fratellanza degli eguali resta da sperare che la disciplina delle emozioni metta tutti al proprio posto con soddisfazione.
Per Nussbaum non ci sono fattori «non emotivi» – come quelli economici – tali da incrinare la virtuosa interazione tra il polo «motivazionale» e quello «istituzionale». La retorica di un grande eroe, come quella messa in campo da Roosevelt quando l’odio di classe minacciava la stabilità della nazione, potrà trasformare la divisione in «amicizia» raccogliendo «gli avvantaggiati e i meno privilegiati in un solo gruppo». Per Nussbaum far parte di una società democratica è comunque un privilegio ridotto solo in minima parte dalle differenze di reddito. Anche in tempo di crisi i «meno privilegiati» dovranno essere persuasi che la nazione si prenderà cura di loro, con buona pace per l’inesorabile tramonto del welfare state e per l’impossibilità di un altro New Deal. Le istituzioni – a partire dalla scuola – contribuiranno ad affiancare al valore attribuito al denaro la prospettiva di soddisfazioni adeguate alle aspettative di chi non gode e non può sperare di godere di un’uguale ricchezza. Saranno date altre opportunità – capacità equivalenti – a chi altrimenti passerebbe le giornate a oziare su un muretto invidiando «i ragazzi più popolari». A ciascuno le emozioni adeguate alla posizione che la «nostra» società prescrive.

Il privilegio della democrazia

Forse la politica delle capacità di queste società in divenire, con le loro emozioni moderate riprodotte tecnologicamente per un’epoca senza ideologie, potrà davvero addomesticare l’odio di classe che colpevolmente sopravvive alla fine della storia, ispirando sentimenti unificanti di compassione. La compassione, però, può rivelarsi un’emozione che divide. Ne fa esperienza Rosa Luxemburgnel 1917, dopo tre anni in carcere, quando incrocia lo sguardo di un bufalo frustato a sangue da un soldato perché rifiuta di trainare un carro carico e pesante. Luxemburg racconta la compassione provata attraverso le sbarre per quell’«amato fratello» di cui condivideva impotenza e dolore, debolezza e nostalgia, mentre il soldato sorrideva fischiettando tra sé «una canzonaccia… e tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi» (Un po’ di compassione, Adelphi). Nussbaum ha ragione ad affermare che il contesto è tutto. Esso cambia radicalmente il modo in cui le emozioni possono contare per la politica.