Il referendum-farsa sulle modifiche costituzionali, è un decisivo passo verso la definitiva trasformazione della Russia putiniana in aperta dittatura.

Non solo perché grazie alla nuova Carta Putin potrà restare al Cremlino fino al 2036 ma anche perché d’ora in avanti la legge russa avrà la supremazia su quelle internazionali togliendo così l’impiccio al potere di dover rispondere al tribunale europeo dei diritti dell’uomo per quanto riguarda le violazioni dei diritti democratici nel paese. Allo stesso tempo con l’inserimento nel preambolo dei richiami alla discendenza diretta tra Dio e la Rus’ e del ruolo della famiglia tradizionale eterosessuale, viene riannodato il legame tra il tricolore dell’Aquila Bicefala e lo zarismo, strappato dalle due rivoluzioni russe del 1917. Il tutto in un quadro in cui le già ridottissime libertà di espressione sono al lumicino.

Le speranze o le illusioni di una fuoriuscita senza scosse dal regime instaurato da Putin sono agli sgoccioli. Senza Putin il sistema crollerebbe e insieme salterebbero gli equilibri costruiti in decenni.

Tuttavia la dittatura putiniana è comprensibile solo se ne colgono i caratteri originali e cioè la mostruosa sintesi di dirigismo e di liberismo, il controllo diretto di Putin e della sua corte del 70% dell’economia e in primo luogo dei settori vitali delle materie prime. La Russia è un caso da manuale (marxista) di capitalismo di Stato dove l’economia di mercato svolge semplicemente un ruolo regolatore e dove la forza-lavoro è sottoposta a ritmi e condizioni di vita durissime. Da qui parte un controllo capillare sull’intera struttura sociale del paese.

Per il plebiscito in tutte le grandi aziende da Gazprom alle municipalizzate è stato organizzata dai cinovniki – i funzionari di stato – una mobilitazione per la partecipazione al voto dei dipendenti che non ha precedenti. Putin teme il suo popolo: del consenso dei primo decennio di governo del paese non è rimasto che il simulacro, solo passività attonita ed esecuzione rigida degli ordini.

In politica i tempi contano e la decisione di Putin di votare in estate e con il coronavirus ancora in circolo (8 mila casi e 200 morti giornalieri) è dettata dal timore che in autunno, a recessione in corso, i russi per disperazione possano usare il referendum come una clava contro il regime. Ma è dettata soprattutto l’evoluzione della situazione in Bielorussia.
Il regime di Lukashenko sta crollando e prossime settimane saranno decisive per le prospettive del piccolo paese slavo. Le elezioni presidenziali sono state indette per il 9 agosto e Minsk si respira un’aria di calma prima della tempesta in questi giorni. Di fronte al grande moto popolare bielorusso di queste settimane che armato di ciabatte intende schiacciare Lukashenko e «i suoi scarafaggi», Putin aveva pensato a una transizione pacifica che portasse il banchiere Vladimir Babariko (uomo di Gazprom) al potere, una carta per gestire l’uscita di scena di Lukashenko che evitasse l’eventualità di un nuovo teatro ucraino quando Putin restando legata fino alla fine a Viktor Yanukovich, si suicidò politicamente lasciando campo aperto alla penetrazione della Nato. Tuttavia la storia è spesso imponderabile e Lukashenko invece di uscire di scena ha resistito: ha fatto arrestare Babariko, ha accusato i candidati di opposizione di essere «delle marionette russe o polacche» e si prepara a vendere cara la pelle.
La vera novità nella partita bielorussa è proprio Varsavia che intende giocare un proprio ruolo, autonomo anche rispetto alla Commissione europea. Il suo candidato alle presidenziali è Valery Zepkalo, politico e faccendiere esperto che pensa a una transizione soft verso l’Occidente. Zepkalo fa baluginare l’idea che la Bielorussa possa trasformarsi in una «Svizzera dell’est», un paese neutrale militarmente ma economicamente con gli occhi a mandorla, una regione tax free con un mercato della forza-lavoro a basso costo per le imprese Ue. Una soluzione-ponte per un paese che ancora oggi mantiene forti legami economici e sentimentali (e in primo luogo con l’epica tragedia della Seconda guerra mondiale in cui la Bielorussia pagò il prezzo più salato in termini di vite umane) con Mosca ma che ormai non vede più di buon occhio una anschluss russa a cui si era vicini non più di qualche mese fa. Se eventualmente Lukashenko decidesse di imporre una dittatura militare di corto respiro, è naturale che la «variante polacca» diverrebbe la più probabile. E sarebbe un segnale che spazzerebbe le pianure russe: se il mite popolo bielorusso ha potuto conquistare la democrazia, è possibile farlo anche qui. Ecco perché Putin ha avuto tanta fretta di andare al voto.
La storia e la politica amano le sorprese e magari da qui al 9 agosto la crisi bielorussa avrà esiti inimmaginabili. Ma mai come ora le chiavi della politica di Mosca sono a Minsk.