Il prossimo big deal di un’industria cinese in Europa potrebbe chiamarsi Ansaldo Energia. Per la società italiana, la cui quota di controllo è appena passata da Finmeccanica alla Cassa depositi e prestiti controllata dal Tesoro, esiste da oltre un anno e mezzo l’interesse di China Investment Company, uno dei fondi sovrani che fanno capo a Pechino e che da tempo medita un’acquisizione nel settore delle tecnologie energetiche, con un occhio di riguardo per quelle pulite: nel nostro Paese ci aveva già provato, senza successo, quattro anni fa con Enel Green Power, operazione poi tramontata.

Le manifestazioni di interesse per Ae, secondo quanto ha riferito a China Files una fonte vicina alla trattativa, sarebbero invece proseguite con discrezione anche negli ultimi mesi. Almeno fino all’estate, prima del blitz di Cdp (che ha rilevato dall’altra controllata pubblica Finmeccanica l’85% delle azioni attraverso il suo Fondo Strategico di Investimenti) che sembrava chiudere ogni spiraglio.

Ma è stato proprio Andrea Gorno Tempini, numero uno di Cdp, a riaprire la porta con le sue dichiarazioni del 16 agosto: «Per Ansaldo Energia cercheremo un partner industriale in grado di farla crescere», ha spiegato. «E non faremo barricate contro gli stranieri: non esistono acquirenti buoni o cattivi, ma solo piani di investimento convincenti e non». Parole che segnano un’inversione di tendenza rispetto a un anno e mezzo fa, quando la politica italiana storceva il naso di fronte a un documento del Dis (Dipartimento informazioni per la sicurezza, l’organo che coordina i nostri servizi segreti) che segnalava al governo Letta, appena insediato, «l’interesse manifestato da operatori stranieri, in particolare cinesi, per alcuni asset strategicamente rilevanti dell’economia italiana».

Tra gli obiettivi sensibili, oltre a Telecom e all’area ex Falck di Sesto San Giovanni (Milano), i nostri 007 citavano anche gli ultimi pezzi pregiati dell’industria di Stato come Sts, Selex-Finmeccanica, Fincantieri, Eni e appunto Ansaldo Energia. Il documento, che doveva restare riservato e invece finì sui giornali, provocò reazioni sdegnate contro la colonizzazione dell’economia tricolore e la possibile perdita dei gioielli di famiglia.
Oggi però il contesto economico è cambiato: un po’ perché alla fine molti di quegli asset sono finiti davvero sul mercato vista la necessità dell’esecutivo di fare cassa, un po’ perché il bussare a quattrini con Pechino da parte dei Paesi europei è stato ampiamente sdoganato, come dimostra la visita di Stato in Cina del premier britannico David Cameron e del ministro delle finanze George Osborne: i due hanno firmato un protocollo d’intesa che a regime dovrebbe assicurare a Londra 6,6 miliardi di sterline (poco meno di 9 miliardi di euro) di investimenti diretti, con collaborazioni che spaziano dalla finanza al nucleare passando per il settore manifatturiero.
Il nostro Paese non può ambire a tanto, ma di certo l’interesse per alcuni comparti, e soprattutto per il grado di tecnologia e know how che porterebbero in dote, esiste ancora.

E in prima fila ci sono proprio le tecnologie energetiche, campo nel quale Ae è uno dei leader mondiali con un portafoglio ordini di 1,517 miliardi di euro. Ma soprattutto è in prima linea (con una market share dell’8% che ne fa il terzo operatore dietro a General Electric e Siemens) per quanto riguarda progettazione e vendita di impianti a turbogas e a ciclo combinato: impianti di cui la Cina ha un disperato bisogno per efficientare i consumi e ridurre l’inquinamento nelle grandi città, uno degli obiettivi prioritari del piano economico di sviluppo annunciato dal premier Xi Jinping.

Altro elemento non secondario, il gruppo italiano sta intensificando i suoi investimenti in America Latina mentre vanta già una presenza importante sui mercati africano e mediorientale: solo lo scorso anno ha acquisito commesse pari a 2.670 megawatt complessivi tra Cile, Algeria, Egitto, Tunisia e Siria.
Tutti Paesi dove per la Cina un incremento del peso geopolitico, unito alla possibilità di giocare la partita energetica con nuove carte a disposizione, non ha praticamente prezzo. Una cosa è certa: se la partnership italo-cinese su Ansaldo Energia andasse davvero in porto, si tratterebbe di un cambio di passo evidente, visto che tradizionalmente gli investimenti cinesi in Italia hanno una forma diversa, che potremmo paragonare a una sorta di piramide.

Alla base, estesissima ma poco rilevante dal punto di vista economico, ci sono le attività intestate ai cittadini cinesi che risiedono in Italia: pubblici esercizi come bar, ristoranti, parrucchieri e centri massaggi, alcune centinaia di laboratori terzisti e di attività import/export di piccolo taglio, più una sessantina di aziende di medie dimensioni, per lo più attività tessili rilevate all’interno dei distretti produttivi più importanti come Prato (maglieria), San Giuseppe Vesuviano e Santa Croce (pelle), Altamura (divani).

Il vertice della piramide è decisamente più ristretto e fotografa una presenza discreta, ma dal peso finanziario e politico capace di influenzare non poco anche i nostri business quotidiani. C’è la finanza pubblica, che tramite il Tesoro, i fondi sovrani e le banche nazionali detiene ormai oltre il 4 per cento del nostro debito pubblico (stime del ministero dell’Economia).

C’è Dagong, l’astro nascente delle agenzie di rating voluto da Pechino per riequilibrare il potere anglosassone in fatto di giudizi, e che per la sua branch europea ha scelto Milano come sede. C’è la logistica, dove le imprese cinesi sono già il principale mittente delle merci in arrivo nei nostri scali ma appaiono ben piazzate anche nella filiera di controllo dei terminal, grazie a nomi come China Shipping, Hna e Cosco, la joint venture nata nel 2005 tra la Coscon di Shanghai e l’italiana Cosulich.

E c’è, soprattutto, uno dei più grandi investimenti mai realizzato da una holding di Hong Kong all’interno dell’area euro: i telefonini di La3, 2 miliardi di ricavi e 2500 dipendenti in pancia al colosso Hutchinson-Wampoa. Sono le «operazioni di sistema», quelle tra le quali in caso di successo rientrerebbe senza dubbio il deal Ansaldo Energia, così come sarebbe potuto accadere per Telecom, Fincantieri e Monte dei Paschi, altri pezzi nobili della nostra economia recentemente finiti sul mercato e per i quali si è a lungo favoleggiato di possibili partnership in arrivo da Oriente.

Fino a oggi la parte significativa della piramide, con investimenti diretti inferiori a quelli esibiti in altri Paesi europei ma quasi quintuplicati nell’arco dell’ultimo decennio, è comunque quella centrale: un corpaccione fatto sostanzialmente di piccole e medie imprese italiane acquisite da aziende cinesi di dimensione pari o leggermente superiori, a conferma di un trend che vede i player orientali in cerca soprattutto di tecnologia, know how e marchi di tradizione spendibili sul mercato. Un universo che abbraccia i settori più disparati e che, secondo le stime appena rilasciate dal Centro studi per l’impresa della Fondazione Italia-Cina, comprende 195 aziende (un terzo domiciliate a Hong Kong) e 10mila dipendenti, per un fatturato complessivo di 6 miliardi di euro.
Qualche esempio? Dal 2012 battono bandiera rossostellata gli yacht Ferretti, finiti nel carnet della Shandong Heavy Industries; parlano mandarino brand importanti della moda come Sixty, oggi nell’orbita del gruppo Crescent, e Sergio Tacchini, rilevato a fine 2007 dal magnate di origini vietnamite Yan Yun Ngok. Tra le Marche e la Lombardia si muove il gruppo Haier, che è arrivato a controllare cinque stabilimenti per la produzione di elettrodomestici con le acquisizioni di Elba e Meneghetti. E se Qinjiang group, nonostante sia il leader del settore in patria, non è ancora riuscita a risollevare completamente le sorti della storica casa motociclistica Benelli, ci sono realtà come la Sirton Faramaceutica di Como che passata sotto il controllo di Shanghai First ha potuto testate nuovi mercati e nuove alleanze. Così come è successo all’emiliana Cifa, che dal 1928 produce macchinari per il calcestruzzo e nel suo ottantesimo anno di vita è entrata a far parte della conglomerata Changsha Zoomlion.
Più tiepide, nonostante l’offerta avanzata a suo tempo dalla multinazionale Chery per gli impianti di Termini Imerese dismessi da Fiat, appaiono le intenzioni cinesi sul mercato dell’automotive. Ma anche in questo caso il Dragone può contare già su una presenza consolidata: tra i fornitori del Lingotto ci sono Anhui Jianghuai, Chagan e Yejin Motor, l’azienda a controllo statale che nel 2005 acquistò quanto restava della britannica Rover.
Da considerarsi ormai a tutti gli effetti cinesi anche la filiale italiana e i 200 dipendenti di Volvo, controllata dal 2010 dalla holding Zhejiang Geely.

*China-files.com