In un mondo globale qual è il nostro ci sono due atteggiamenti tipici nei confronti della storia: da una parte, la ricerca di «piccole patrie» nelle quali rifugiarsi, magari da rivendicare contro la fluidità dell’epoca contemporanea; dall’altra, il proiettare sul passato la globalità del presente, riconoscendo che viaggiare, migrare, scoprire, sono stati fenomeni connaturati all’essere umano.

VIAGGIANO ANCHE le malattie, come sappiamo bene in questi mesi di pandemia; e allo stesso tempo, volgendoci al passato, scopriamo che i morbi camminavano rapidamente per il mondo anche quando non si viaggiava velocemente come oggi. In particolare, per quanto concerne il medioevo, a lungo è prevalsa una visione chiusa e ben poco globalizzante: in fondo, è vero che ci capita spesso di parlar di vari «medi-evi»; si dice, per esempio, «medioevo ellenico», alludendo al periodo intercorso fra la fine della cultura minoico-micenea e l’avvio della cultura classica, cioè ai secoli grosso modo XII-X a.C.; o «medioevo giapponese», alludendo al periodo detto Sengoko, «dei regni combattenti» o «dei cavalieri ed eroi» (tra ultimo quarto del XV secolo e ultimo quarto del XVI); o si parla di «Islam medievale» per riferirsi alla storia del mondo islamico nei secoli che corrispondono al «nostro» medioevo.
Si tratta, in questi come in altri analoghi casi, solo dell’adattamento a un concetto già formulato per la storia europea fra V e XV secolo, quello cioè secondo il quale ogni periodo di transizione è un «medioevo»; oppure dell’isolamento e dell’ipertrofizzazione di alcune somiglianze morfologiche (assetti istituzionali o insorgere di costumi militari che ricordino, rispettivamente, il feudalesimo o la cavalleria a loro volta schematicamente concepiti), senza riguardo per la diversità dei contesti nei quali tali analogie formali si presentano né per la rispettiva specificità delle funzioni in cui esse s’inquadrano.

QUINDI IL MEDIOEVO è una periodizzazione che ha acquisito un senso soltanto in rapporto alla storia dell’Europa, e che noi abbiamo declinato attraverso una prima fase di crisi e di ruralizzazione, seguita da una graduale ripresa che sfocia nei secoli d’oro (XII-XIII), seguita da un’altra crisi, quella del Trecento. È una prospettiva storiografica, dunque culturale e non naturale, come si vede bene se si sposta il focus dai luoghi che tradizionalmente hanno dato origine a tale concezione (l’Italia, la Francia, la Germania, l’Inghilterra) verso altre realtà geografiche.
Per esempio, la crisi dell’impero romano occidentale, lo spostamento del potere verso il mondo carolingio, ossia verso un mondo prevalentemente rurale e scarsamente urbanizzato, ci offrono una prospettiva tradizionale sul primo medioevo; ma se noi prendiamo come centro non Aquisgrana, bensì il Mediterraneo, possiamo davvero parlare di crisi? Lo sviluppo della Nuova Roma, tramite fra Asia e Mediterraneo o lo sviluppo del mondo arabo-islamico, straordinario elemento globalizzante nei secoli VI-XI, ma anche il precoce attivismo commerciale dei centri demici italiani, ci raccontano una storia tutta diversa.

LO SI COGLIE BENE attraverso due nuove pubblicazioni: Lorenzo Tanzini, Francesco Paolo Tocco, Intorno al Mediterraneo. Un Medioevo mediterraneo (Carocci, pp. 464, euro 39) e Georges Jehel, Il Mediterraneo medievale. Dal 350 al 1450 (Besa Muci, pp. 234, euro 18); al di là delle differenze evidenti (il primo scritto da due medievisti italiani, il secondo da un medievista francese, il primo più corposo e completo, il secondo più agile e sottile), la prospettiva è simile, poiché entrambi i libri si spostano sul Mediterraneo, e da lì osservano il mondo circostante.

PER QUESTO, Jehel ci parla dei regni d’Etiopia, Tanzini e Tocco di Bisanzio, di Islam, degli italiani nel Mediterraneo molto più di quanto non si incontri in genere nella manualistica italiana. E parliamo di «manualistica» non casualmente, poiché entrambi i libri si presentano (in fondo) come due manuali, a partire dalla periodizzazione proposta, però con uno slittamento importante della prospettiva, per cui la sensazione del tracollo dell’Impero romano, della crisi, è assai mitigata dalla vivacità che si manifestava sulle sponde di questo mare.

CERTAMENTE IL MEDITERRANEO è tornato di moda ed è un bene che lo sia, dopo anni di colpevole dimenticanza. Tuttavia, sarebbe anche interessante avere un quadro del medioevo visto dal Baltico o dal Mare del Nord, o ancora dalle grandi rotte fluviali del Volga e del Don.
Come ci vedremmo da quella prospettiva? In un certo senso, la prospettiva è tutto: esce adesso in traduzione (ma con testo originale incluso) Marco Di Branco, Ibn Haldun tra Alessandro e Cesare. La Grecia e Roma nel Libro degli esempi (Il Poligrafo, pp. 228, euro 40). Ibn Khaldun, sommo intellettuale del XIV secolo (morì nel 1406), nato a Tunisi da una famiglia di notabili originari di al-Andalus (i genitori morirono durante la peste del 1348-51), vissuto tra Maghreb e Granada, poi in tarda età in Egitto, ha lasciato un corpus di scritti imponente che spazia fra filosofia politica e storia; lo si definisce a volte un sociologo ante litteram.
In un’opera complessiva, il Libro degli esempi, che indagava quali fossero i fattori dell’incivilimento, in teoria e poi attraverso la narrazione storica, la parte dedicata alle vicende greche e romane permette di cogliere il valore centrale che Ibn Khaldun le assegna: un vero intellettuale del Rinascimento, insomma. Anche perché il Rinascimento che ricordiamo sempre per i meriti artistici fu pure epoca di traguardi tecnico-scientifici importanti, nonché di esplorazioni inedite.

L’USCITA dal Mediterraneo verso le coste africane e l’Oceano indiano, oppure verso le rotte atlantiche, aveva tuttavia in mente sempre il vecchio pallino degli europei: raggiungere la Cina che i Ming avevano chiuso quando, nel 1368, avevano abbattuto la dinastia mongola degli Yuan. Le merci, le ricchezze, le città magnifiche delle quali avevano parlato i testimoni medievali andavano ormai completamente riscoperte.
Si aprì così un capitolo nuovo della globalizzazione, che Antonella Romano nel suo Impressioni di Cina. Saperi europei e inglobamento del mondo (secoli XVI-XVII) (Viella, pp. 336, euro 35) rilegge attraverso la lente della storia culturale: la storia degli scritti e degli oggetti che circolavano fra mondi nuovi e vecchi in contatto fra di loro. Naturalmente è anche storia di coloro, a partire da Matteo Ricci (ma ci sono tanti altri nomi e vicende parimenti affascinanti), che permisero il contatto e costruirono l’insieme dei saperi e delle fascinazioni europee per la Cina e l’estremo Oriente che prenderanno il nome di orientalismo.