I primi quaranta minuti del terzo capitolo, Incantato, somigliano ad una deriva oltre i limiti del racconto. Sherazade entra in scena in carne ed ossa e comincia a vivere in prima persona le proprie storie. Oltre la finzione c’è la vita. La finzione è andata al di là del racconto e questo a sua volta si è sublimato fino a scomparire o a coincidere con l’azione. Il segno di questo trapasso è la scomparsa della parola. Sherazade, troppo occupata a vivere, ha smesso di incantare: la sua parola si è dileguata, o meglio, si è fatta a sua volta corpo, è diventata un testo impresso sullo schermo.

 

 

Ma, dopo averci portato sulla vetta della fantasia e dell’immaginario, Gomes ridiscende brutalmente nell’ordinario. Dalle spiagge senza tempo, dalle montagne incantate, tutto ad un tratto, ritroviamo le torri moderne, i lotti popolari, i quartieri periferici di Lisbona.

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Nel tornare nel tempo presente il film abbandona i drappi, gli ori, le belle berbere e i giovanotti dai riccioli resi biondi dal sole… Ma se l’ambaradam delle notti arabe scompare con un taglio netto, il vero incanto deve ancora arrivare. Paradossalmente, il passo in più sembra un passo indietro: un ritorno al primo episodio, quando Miguel chiedeva a se medesimo se avesse senso fare film che si dà un compito preciso, in questo caso quello sociale e politico di documentare la crisi economica del Portogallo. Certo, la missione è alta e giusta. Ma l’arte non deve essere pura? Il cinema non scompare quando lo si piega ad uno scopo pratico?

 

 

Incantato diventa improvvisamente un documentario nel senso classico del termine: epurato il più possibile di elementi esterni, da un’intenzione, da un programma. La macchina da presa non racconta più ma si limita ad osservare. Più precisamente, si mette all’ascolto del suono del mondo. Qual’è questo suono? In un quartiere popolare già pesantemente devastato dalla crisi, una classe operaia messa a riposo forzato si inventa una domenica della vita totalmente inattesa: l’allevamento di uccellini canterini. Sottratti alla produzione, i proletari non smettono di operare. Ma se da un lato cessano di produrre, o proprio per questo, dall’altro si mettono ad agire. Non ad agire per uno scopo pratico. Ma in vista di un’idea che ha in sé il proprio scopo e in questo si esaurisce: il canto.

 

 

Imbambolato davanti allo spettacolo di questa fine dialettica, il film segue personaggi che la finzione non saprebbe inventare e che, in tutta naturalezza, quasi non ci fosse altro scopo alla vita, consacrano la loro esistenza alla cultura degli uccelli. In ogni loro gesto e in ogni loro parola, portano quell’orgoglio tipico dell’uomo che sa di possedere una scienza che è più di un sapere, nella misura in cui, in quanto pratica sociale, è lo spirito di un corpo e ne definisce le membra.

 

 

Certo, viene da chiedersi se questi proletari non farebbero meglio a investire con più giudizio il proprio sapere. Invece di allevare uccellini non potrebbero preparare la rivolta? Nell’incanto c’è sempre il rischio del disincanto: che in questa lotta di puro prestigio che tutto il quartiere organizza ci sia solo il bel gesto. Ma di bei gesti non si mangia. E, di certo, con i canti non si fanno le rivoluzioni. Non sarebbe meglio preparare bombe e cannoni ?

https://youtu.be/rYHFB6LFFfk

 

Il film sembra rispondere a questa interrogazione silenziosa quando mostra una folla che, riunita per ricordare la Rivoluzione dei garofani, intona: «Alle armi, alle armi!». E una legenda commenta: «sentendo intonare il canto, Sherazade tacque».
Forse è anche cantando che si prepara una rivolta. E non sarebbe certo la prima volta che il cinema trova nel canto un’espressione della storia politica di un popolo. Ma cos`è dunque questo incanto?

 

 

È una distorsione e un armonia. Distorsione della finzione e del documentario, che mutano ed escono da se fino a diventare il proprio altro. E armonia dell’unione reciproca di queste due note. È quindi un doppio movimento. Lo si ha ad esempio quando la realtà degli allevatori di uccelli esce da se e diventa pura poesia.
E quando, dall’altro lato, il racconto di Sherazade abbandona le alcove e le storie fantastiche per parlare la lingua della storia e della cronaca se non del giornalismo. È dai bordi estremi di queste due inversioni che risuona un canto unico, tanto bello e tanto forte che per resistergli vi dovrete legare alle poltrone del cinema.

 

Miguel Gomes sarà in Italia per presentare il film al pubblico di Milano (domani, ore 20, Anteo SpazioCinema), Torino (sabato 19, ore 18, Massimo) e Roma (domenica 20, ore 20, Farnese). Il film di Gomes esce all’Anteo di Milano (18 marzo-7 aprile), dal 18 al 24 marzo – Vol. 1, dal 26 al 31 vol. 2, dal 2 al 7 aprile vol. 3 (orari a breve sul sito: https://www.facebook.com/events/1712541712294571/). A Roma il Farnese ospita la «maratona»: il 18 (vol. 1 ore 22), il 19 (vol. 2 ore 22), il 20 (vol.3 ore 20). Il Cinema Massimo di Torino propone questo calendario: il 19 (ore 18) e 20 (ore 15.30) vol. 1, 19 (ore 20.15) e 20 marzo (ore 18) vol. 2, il 19 (ore 22.30) e 20 marzo (ore 20.30) vol. 3. A Trieste il film viene proposto dal Cinema dei Fabbri dal 18 al 24 marzo (orari disponibili sul sito. FB: https://www.facebook.com/events/183692305344040/). Al Postmodernissimo di Perugia ogni giorno un capitolo, il 18 (ore 17, 19.15, 21.30) vol. 1; il 19 (ore 17, 19.15 e 21.30) vol. 2, il 20 (ore 17, 19.15 e 21.30) vol. 3. Il 19 marzo, alle ore 16.30, è in programma una maratona dei tre volumi. Introduzione critica a cura di Daniele Dottorini (ingresso 10 euro). A Palermo, infine, al cinema Rouge et Noir come anteprima del Sicilia Queer Filmfest il 21 (ore 17) la maratona dei 3 volumi.