Botescià! Botescià! Eh, si fa presto a dire Botescià. Certo, i primi trionfi in Francia dei pedalatori nostri non furono un elegante planare di un airone, piuttosto un goffo zompare di una rana, la faccia scavata dalla fame e dalla fatica di lavorare da povero una terra povera.

Ma per diventare Botescià, due Tour vinti e altri due persi per caso o per forza, ne dovette passare Ottavio Bottecchia da San Martino di Colle Umberto. Il salmastro di Le Havre, il vento di Bordeaux, le stelle sui Pirenei alle quattro del mattino, la sabbia della Provenza, le pietraie in cima al Galibier. Oltre ai continui tradimenti dei fratelli Péllissier, splendidi aristocratici malvagi, cui non andò mai a genio di mettersi al servizio di uno spaesato contadino.

E le minacce degli esuli italiani intorno a Nizza, quando il regime diffuse la voce (falsa) di una sua adesione al fascio. Niente, comunque, in confronto alle trincee attraversate, sempre in bicicletta, la mitraglia a tracolla, nella grande guerra.

Dalla grande guerra Bottecchia ritornò, e diventò campione in Francia cossì i pol magnar calcossa, lui e i 32 nipoti suoi. Non tornò Petit-Breton, sbarcato dall’Argentina per trionfare al Tour e alla prima Milano – Sanremo, e per trovare la morte in un incidente al fronte. Non tornò Lapize, tre Parigi – Rubaix e un Tour de France con la prima, disumana, scalata al Tourmalet. E non tornò neppure Faber, che di Lapize fu l’arcinemico. La bestialità della trincea non concedeva niente alle baruffe tra tifosi.

Bottecchia la fine la trovò a due passi da casa, il corpo agonizzante sulla scarpata della strada e la bicicletta un po’ più in là. Un malore per il caldo, o l’agguato di un contadino inferocito per un furto d’uva, si disse allora.

Un po’ poco, o un po’ troppo. O la vendetta di un gerarca prepotente, insultato il giorno prima all’osteria, ma questo si può dire solo oggi.

Lo stesso Piave che Bottecchia aveva difeso in bicicletta, con poche idee vanagloriose in testa sulla Patria, me tenendo ben presente che lì a un tiro di schioppo c’era la sua gente, lo attraversano oggi i corridori, per arrivare a Nervesa dopo la partenza da Ferrara.

Viene loro incontro l’odore dell’erba tagliata da poco ai bordi dei filari, lungo un rettifilo che non concede sogni di gloria ai fuggitivi e apparecchia la volata. Per la verità ci prova Coledan a rovinare la festa ai velocisti, ma

Viviani è lesto a ritrovare il bandolo della matassa smarrito ieri a Imola, slalomeggia tra i rivali e vince netto.