A combattere lo Stato Islamico e i gruppi jihadisti, che come funghi spuntano tra le pieghe delle guerre siriana e irachena, non sono gli eserciti governativi. Come in Iraq, anche in Siria il ruolo delle milizie sciite, locali e straniere, è diventato centrale e molto più efficace di quello dei disastrati eserciti di Damasco e Baghdad. Tanto da firmare cessate il fuoco: giovedì Jaish al-Fatah (l’Esercito della Conquista, federazione di milizie islamiste capitanate da al-Nusra) e le forze sciite pro-Assad hanno siglato una tregua di sei mesi a Zabadani, al confine con il Libano, e nei due villaggi sciiti di Fuaa e Kafraya, nella provincia di Idlib.

A fare da supervisori, secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, sono intervenuti Onu e Iran. Abdullah al-Mohaisany, ufficiale islamista, ha riportato i dettagli dell’accordo: corridoio di fuga per i civili, stop ai raid dell’aviazione governativa, abbandono delle armi e ritiro dei miliziani islamisti da Zabadani a Idlib (controllata da al-Nusra).

Il cessate il fuoco mostra la centralità delle milizie sciite che combattono sul campo siriano: oltre 150mila combattenti, ben equipaggiati e addestrati, ormai indispensabili per il presidente Assad, che ha visto il proprio esercito dimezzato da defezioni, ferimenti e uccisioni. «Ci sono oltre 25 milizie di diversa grandezza in Siria, tra i 150 e i 200mila uomini», ha riportato all’Afp una fonte militare anonima. Tra queste la principale è la Ndf (National Defence Forces), nata nel 2012 sotto la supervisione di Damasco e Teheran. Conta 90mila paramilitari, dispiegati per lo più nella capitale, ad Aleppo e a Homs. C’è chi si è unito per spirito patriottico, chi per denaro: il salario va dai 100 ai 300 dollari al mese, dieci volte tanto quello incassato dai soldati di Assad. E c’è chi lo fa perché, potendo combattere nelle proprie città, vede crescere il proprio ruolo nella società.

Intorno all’Ndf si muove una galassia di milizie sciite, formatesi intorno a nuclei diversi: partiti politici, tribù, etnie. Il partito Baath conta 10mila uomini, attivi a Damasco e Aleppo, e il partito Nazionalista Socialista i 6mila combattenti delle Nussur al-Zaoubaa; le milizie etniche (alawite lungo la costa, druse a sud e cristiane a nord-est) nell’ordine delle migliaia; e quelle tribali circa 2mila, divisi tra gli uomini delle tribù del deserto di Badiya e quelle di Deir Ezzor.

Ancora più potente è il ruolo delle milizie inviate da fuori, dal cosiddetto asse sciita: gli 8mila libanesi di Hezbollah e i 6mila combattenti afgani e iracheni, gestiti dalle 7mila Guardie Rivoluzionarie iraniane sul terreno. È l’Iran a supervisionare, equipaggiare e addestrare i combattenti, sia stranieri che siriani, come i 7mila uomini dei Falconi del Deserto dispiegati ad Homs.

Lo fanno in Siria come lo fanno a Baghdad, apparentemente coordinandosi con il super alleato, la Russia: secondo un articolo della Fox, comandanti siriani, iraniani e russi avrebbero creato una cellula di coordinamento in chiave anti-Isis nella capitale irachena.

L’ennesimo guanto di sfida russo al presidente Obama che due giorni fa ha capitolato e accettato di incontrare la controparte, Vladimir Putin, il prossimo lunedì a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Secondo il segretario alla Difesa Usa, Ashton Carter, Mosca e Washington potrebbero individuare strumenti di coordinamento, necessari a porre fine alla crisi siriana. La Russia ha dichiarato l’intenzione di unirsi alla coalizione internazionale, solo nel caso in cui il nemico sia identificato nell’Isis e non in Assad. Che negli ultimi giorni ha visto migliorare la propria posizione: dall’inattesa apertura del presidente turco Erdogan a quella della cancelliera tedesca Merkel, sono sempre di più i leader mondiali che ritengono ormai necessaria la partecipazione del presidente siriano al negoziato.

Visioni solo apparentemente vicine: Mosca e Teheran non vogliono veder saltare Assad, ma solo la partecipazione delle opposizioni alla transizione politica. Occidente e Turchia pensano ad un Assad ad interim che scompaia non appena la crisi sarà passata. L’incontro Obama-Putin potrebbe aprire la strada ad una soluzione a metà, che garantisca alle due super potenze di evitare uno scontro che non vogliono e di salvare non solo la faccia, ma soprattutto i rispettivi interessi: negoziato tra opposizioni e Damasco e un governo di unità a cui prendano parte importanti figure dell’establishment di Assad. Magari senza Assad.