L’attacco di al-Sisi contro la Libia non si ferma. «Non c’è altra scelta», ha detto il presidente egiziano chiedendo il mandato dell’Onu per continuare i suoi bombardamenti. Insomma: dopo di lui il diluvio. E così sono continuati i raid dell’esercito egiziano la notte scorsa.

Questa non è una guerra di al-Sisi contro i jihadisti, i califfati, gli estremisti che dicono di rifarsi allo Stato islamico (Isis), come viene rappresentata dai media a grande diffusione, o non è solo questo. Il presidente al-Sisi guarda alla Libia come a un’estensione territoriale egiziana, dopo la fine del regime del colonnello Muammar Gheddafi. È questa la chiave di lettura per capire gli attacchi egiziani.

I raid del Cairo, insieme ai militari libici filo-Haftar, non colpiscono solo i jihadisti di Sirte e Derna, ma anche i miliziani che si rifanno al cartello Alba (Fajr), la coalizione nata per fermare l’avanzata del generale Khalifa Haftar. Ieri ci sono stati bombardamenti anche contro Misurata, la roccaforte delle milizie Scudo che appoggiano la legittimità del parlamento di Tripoli, e che nulla hanno a che fare con Isis. La strategia è sempre la stessa: presentare l’intervento militare egiziano come l’azione dello Stato forte contro il terrorismo.

Ma la verità è un’altra: questa è una guerra contro Tripoli, il parlamento dei Fratelli musulmani libici, il premier Omar al-Hassi, il Qatar che li appoggia. In altre parole, contro l’ultimo baluardo della Fratellanza in Nord Africa. Ancora una volta al-Sisi tenta di eliminare l’islamismo politico (che in Libia ha legami più ambigui con il terrorismo rispetto all’Egitto) con il pretesto dell’attacco contro i jihadisti. Se questa strategia sarà sostenuta dalla comunità internazionale il terrorismo verrà alimentato all’infinito dando linfa vitale alla strategia del golpista egiziano.

Per ora a rispondere alla pressione di al-Sisi per un mandato delle Nazioni unite sono solo la Francia di Hollande e la Lega araba. L’Egitto ieri ha firmato un accordo per l’acquisto di 25 caccia, una fregata e missili per un totale di 5,2 miliardi di euro da Parigi. Con questo contratto, l’Egitto diventa il primo paese straniero ad acquistare i caccia francesi Rafale.

L’accordo rientra nel tentativo del governo egiziano di bilanciare il parziale congelamento degli aiuti militari Usa, stabilito dal Pentagono dopo il golpe del 2013. Ma al-Sisi sta tessendo la tela per costruire una coalizione internazionale più ampia intorno a quella che forse sarebbe giusto chiamare la sua «operazione Cirenaica»: il tentativo di sfruttare il caos libico per espandere la longa manus egiziana in Libia trasformandola in controllo dei pozzi petroliferi, gestione dei flussi migratori e della sicurezza. Per il momento Italia e Gran Bretagna si sono sfilate.

E per una volta hanno fatto bene perché una nuova guerra in questo contesto farebbe solo gli interessi egiziani e di un regime che non ha certo fatto sconti ai suoi oppositori interni. E così ormai l’Egitto è in guerra. Centinaia di persone si sono riversate per le strade del villaggio di al-Our, nel governatorato di Minya, per piangere i 21 copti uccisi a Sirte. Nei video della tv di stato egiziana si vedono mogli e madri che chiedono vendetta per i loro figli.

Mentre al-Sisi, cavalcando l’onda emotiva dell’ultima ora, ha fatto visita al Papa copto Tawadros II per far sentire la sua vicinanza ai cristiani egiziani. Rappresentanti della giunta militare parteciperanno ai funerali delle vittime a Minya e il primo ministro Ibrahim Mahlab ha promesso 10 mila euro a ognuna delle famiglie delle vittime come compensazione del grave crimine subito. Ci ha pensato poi il magnate di Orascom, Naguib Sawiris a esaltare la dura reazione delle forze egiziane. Sawiris ha definito l’attacco jihadista a Sirte una «guerra contro l’umanità e la civiltà». La tensione è di nuovo alle stelle anche al Cairo.

Le forze armate hanno annunciato il dispiegamento dell’esercito in tutti i governatorati per «proteggere le proprietà pubbliche e private e contribuire a catturare i criminali». La decisione è stata presa dal Consiglio nazionale di Difesa dopo l’inizio degli attacchi in Libia. È stato amche annunciato l’inasprimento delle misure per fronteggiare i terroristi interni del Sinai.

Dal canto loro, i miliziani di al-Fajr devono combattere su un doppio fronte: contro i jihadisti di Sirte e rispondere ai bombardamenti egiziani. L’aviazione di Tripoli ha bombardato l’aeroporto di Tobruk, sede del parlamento (su una nave per ragioni di sicurezza) dell’asse Haftar-Sisi, sciolto dalla Corte suprema, mentre le milizie Scudo sono in marcia verso Misurata.
Dal canto loro, i jihadisti di Derna hanno assicurato che useranno i residenti come «scudi umani» contro gli attacchi di al-Sisi.

Su tutto, ad esacerbare il conflitto ci pensa la strategia mediatica dell’Isis che si auto-rappresenta (grazie alla cassa di risonanza dei media) come ubiquo: da Copenaghen all’Iraq. Proprio ieri Isis ha diffuso le immagini di 45 persone arse vive ad al-Baghdadi, a 8 km dalla base aerea di Ain Al-Asad, nell’Iraq occidentale.