L’incaricata dell’Onu per i rifugiati, la filippina Cecilia Jimenez-Damary, ha denunciato le violenze in Libia delle milizie armate di Misurata che, complice l’inerzia del governo di accordo nazionale (quello di Tripoli guidato da Mustafa al Serraj), continuano a impedire il ritorno a casa degli abitanti di Tawergha, la città dei libici di pelle nera.

Nel 2011, durante i bombardamenti Nato in appoggio ai cosiddetti “ribelli”, le milizie di Misurata attaccarono la vicina Tawergha, uccisero diversi residenti, diedero fuoco alle case e spinsero alla fuga bambini, donne, uomini, anziani. Fra le 30 e le 40mila persone. L’accusa? «Erano dalla parte del governo di Gheddafi».

I più fortunati riuscirono a riparare in Tunisia o in Egitto. Gli altri da anni sopravvivono in alloggi di fortuna: capannoni, strutture pubbliche, tende nei parchi pubblici, ma anche baracche in aree desertiche. Le loro condizioni sono terribili da tutti i punti di vista e gli aiuti internazionali agli sfollati possono appena alleviarle. Due uomini sono morti nelle tende per via delle temperature notturne vicine allo zero.

Jimenez-Damary ha precisato che il processo di ritorno dei deportati avrebbe dovuto iniziare il 1 febbraio, sulla base di un accordo approvato dal governo di accordo nazionale. Ma tutto tace.