«Stanotte mi sono svegliata alle 4 e mi sono messa a piangere, poi ho preso un calmante e ho provato a dormire ma non ci sono riuscita e mi sono messa a piangere di nuovo, così appena è finito il coprifuoco sono uscita». È stata questa la prima frase di Svetlana, quando l’abbiamo incontrata stamattina nella piazza del teatro di Leopoli.

Svetlana ha vissuto per 17 anni in Italia ed è tornata in Ucraina il 5 dicembre, per amore. Il suo compagno è un militare e ora è stato inviato da qualche parte a est, «ma non so dove, non lo può dire per questioni di sicurezza».

Vuole sfogarsi, è evidente, e, nonostante il freddo pungente, restiamo in piedi in mezzo alla piazza ad ascoltarla. «Io non ci posso credere che quel pazzo vuole distruggere tutto il mondo, ma voi non avete paura che lanci una bomba atomica?». Cerchiamo di tranquillizzarla, di dirle che non succederà, ma lei ci guarda fisso con un mezzo sorriso come se volesse compatirci. «Voi non capite, in Occidente non avete chiaro che ciò che sta succedendo all’Ucraina è solo l’inizio».

Proviamo ancora a ragionare, a spiegarle che Putin non ha intenzione di sterminare una parte dell’umanità iniziando una guerra nucleare. Purtroppo i ragionamenti non le interessano, pensa solo al suo compagno al fronte, alle notizie della televisione e all’Occidente che non vuole fermare i russi.

Più calma, ma non meno straziante, è una signora nella biblioteca comunale che racconta delle telefonate che ogni giorno affronta con il marito. La prima domanda che gli fa è «sei vivo?» e poi continua. Lei e la figlia sono scappate da Kiev e ora sono qui a Leopoli come decine di migliaia di ucraine che hanno deciso di non lasciare il Paese per stare il più vicino possibile ai loro uomini: mariti, figli, padri coinvolti nello sforzo bellico dislocati in ogni parte di questo enorme stato che dai Carpazi arriva quasi fino al Don.

Da venerdì 25 febbraio, ovvero dal giorno dopo l’invasione russa, a Leopoli sono arrivate a migliaia. Donne di tutte le età, quasi sempre con i figli al seguito (i maschi solo se minori di 18 anni), terrorizzate e completamente disorientate. La maggior parte di loro non era mai stata in questa parte dell’Ucraina e si stima che solo tre su dieci avessero la possibilità di trovare un alloggio in città.

Per fortuna la cosiddetta «macchina della solidarietà» si è messa subito in moto e i cittadini di Leopoli, prima auto-organizzandosi, poi con aiuti locali e internazionali, sono riusciti ad attrezzare strutture per ospitare gli sfollati e distribuire pasti caldi. Tra l’altro, neanche a farlo apposta, dall’inizio della guerra le temperature sono calate drasticamente, tanto da far arrossare le dita persino di giorno quando si prova a scattare qualche foto.

Ad oggi, quasi due milioni di questi sfollati hanno già passato il confine con la Polonia, la Slovacchia o la Moldavia.Quando si parla di «solidarietà europea», in ogni caso, bisognerebbe pensare anche al comportamento di alcuni stati membri e valutare se davvero esistono dei valori condivisi come, per citarne uno, l’accoglienza.

Ad ogni modo, chi è rimasto o aveva troppa paura dell’ignoto o lo ha fatto per qualcuno. Nel secondo caso, dopo lo shock, la fuga e lo spaesamento è subentrata la necessità di occupare il tempo. Molti sfollati sono diventati volontari nei centri di raccolta e smistamento dei beni di prima necessità, altri come la signora che menzionavamo in apertura, preparano attrezzature per i soldati o coordinano gli approvvigionamenti.

Il tutto avviene mentre televisioni, radio e smartphone suonano in continuazione dando le ultime notizie. È facile indovinare i pensieri che si affollano nella mente di queste persone appena sentono il suono che avvisa di un possibile attacco. Dove sarà, chi sarà coinvolto, ci saranno morti? E quindi il pensiero va ai propri cari e la giornata non passa mai.

Soprattutto da quando si moltiplicano le notizie di attacco ai civili. Stanotte a Sumy, che da due giorni è teatro di un’evacuazione di massa (5mila persone nella sola giornata di ieri, secondo il sindaco Dmytro Lunin), sarebbero stati uccisi 22 civili, dei quali 3 bambini, nel corso di un bombardamento da parte delle truppe russe.

Sempre dei bombardamenti aerei, stavolta di «bombe a caduta libera», ovvero ordigni privi di teleguida, sarebbe la responsabilità del massacro di 47 civili il 3 marzo nella città di Chernihiv. A rivelarlo è Amnesty International, che in un comunicato ufficiale ha sottolineate come «non è stata in grado di identificare un obiettivo militare legittimo presente nel luogo dell’attacco o nelle vicinanze». E quindi si tratterebbe di un attacco indiscriminato.

Riguardo alle paure di Svetlana, invece, l’azienda statale per l’energia nucleare ucraina Energoatom ha annunciato la disconnessione di Chernobyl dall’impianto elettrico per motivi di sicurezza. Interrompendo il raffreddamento del combustibile si corre il rischio di rilasciare sostanze radioattive nell’ambiente. Tuttavia, come ha dichiarato l’operatore del sistema di trasmissione Ukrenergo, la connessione alla corrente non può essere ripristinata mentre i combattimenti sono in corso.

Sempre a proposito di energia, l’Ucraina conta di potersi allacciare al sistema di trasmissione europeo entro una settimana. Lo ha dichiarato il ministro dell’energia Herman Halushchenko. Questa notizia è particolarmente significativa se si considera che fino al 23 febbraio (un giorno prima dell’invasione) Kiev era parte dello stesso sistema di trasmissione che include Russia e Bielorussia. Ciò spiegherebbe, almeno in parte, le difficoltà dell’esercito russo nel tagliare le linee alle città sotto attacco.

Tornando ai civili, a Kherson, teatro di sanguinose battaglie e di almeno tre capovolgimenti di fronte, oggi sarebbero state arrestate 400 persone, la maggior parte delle quali civili. Secondo l’esercito ucraino, l’intento dei russi è piegare la resistenza all’interno della città. Attualmente gli arrestati si troverebbero sotto il controllo della Guardia Nazionale Russa e non si hanno notizie sulle loro condizioni né sulla loro identità.