Negli Usa, si sa, c’è Hollywood. L’India, è noto, ha Bollywood. La novità è che in Afghanistan c’è  Nothingwood: un cinema fatto col nulla o quasi. In realtà, il titolo del bel documentario di Sonia Kronlund (presentato oggi alla Quinzaine) è in parte fuorviante. Il suo tema non è un’industria, piccola o grande, vera o immaginaria, ma un personaggio che da solo rappresenta al tempo stesso una scena, un’attrazione, una figura.

Salim Shaheen è produttore, regista, attore. In Afghanistan, tutti sembrano conoscerlo grazie ai film, 110, che è riuscito a produrre in condizioni più che artigianali. Ovunque vada, intorno alla sua piccola armata brancaleone di attori, scrittori e tecnici, si crea una piccola folla di fan. Il proletariato lo riconosce, lo ama. E persino alcuni Talebani sembrano avere in simpatia questo strano Rambo nazionale.

Ora Sonia Kronlund non è interessata a sapere se il vero Salim sia la persona o il personaggio. Quello che Nothingwood, con molta grazia, riesce a cogliere è invece il passaggio incessante dell’uno nell’altro. In questo movimento, in cui un uomo tarchiato e dai modi rozzi si trasforma ora in un super eroe dalla forza sovrumana, ora in uno scaltro agente segreto, ora in un venditore di thè, trovando sempre il tempo per una canzone, c’è tutta la bellezza d’una metamorfosi. E poco importa se in questa mutazione Salim esca, diventi o ritorni sé stesso. L’azione è quella di trasformare il mondo in una scena. Nel bel mezzo di un deserto o di un villaggio, ai piedi di una montagna, ovunque Salim piazzi la macchina da presa, nasce una scena, dove il nostro agisce come un legislatore, imponendo norme diverse e in qualche caso opposte da quelle che persistono fuoricampo.

Effimera, a metà strada tra la finzione sullo schermo e la nuda realtà: in questa zona grigia quelli che altrove non possono essere se stessi trovano più di un riparo, un riflettore. Come Qurban Ali, l’attore principale di Salim; nei suoi ruoli si traveste e gioca con la propria ambiguità sessuale. O una giovane attrice, nella vita oggetto di invettive, che sul set di Salim può danzare (quasi) liberamente. E non ultima Sonia stessa, che nel mondo di Salim Shaheed può ritagliarsi un ruolo altrimenti impossibile per una donna straniera. Nel bel mezzo dell’Afghanistan risorge allora una delle figure più intriganti del cinema contemporaneo. Salim è un fratello minore del Grizzly Man di Herzog ed entrambi sono figli di Amin Dada di Schoreder.

Sono tutti creatori di cinema in luoghi dove il cinema sembra impossibile. È chiaro che nella loro ambizione artistica (che rivendicano come un mantra) queste figure appaiono ingenue. Ma al tempo stesso irriducibili alla farsa che pure portano in sé. Il Grizzly man sarà divorato dai suoi orsi. Amin Dada, che gioca alla guerra come un bambino, era un dittatore sanguinario. Infine Salim, circondato dalla guerra civile. Un odore di morte accompagna questi cavalieri, nei quali vediamo apparire al tempo stesso un Don Chisciotte e un Sancho Panza e con loro una questione politica tanto più forte che non la si vede arrivare.