In base a una teoria molto accreditata, diventare consapevoli di non essere eterni ha rappresentato un momento decisivo nella storia dell’umanità. In effetti, secondo alcuni, è stato addirittura il momento decisivo per eccellenza, quello in cui abbiamo acquisito la consapevolezza di esistere. Ci siamo affrancati dalla bestialità degli istinti primari proprio perché, nel mezzo del nostro cammino evolutivo, abbiamo capito che dobbiamo morire. È una consapevolezza spiacevole ma della quale andiamo fieri. Non tutti per la verità; Dostoevskji o, se non proprio lui, il personaggio al quale dà voce in Memorie dal sottosuolo, vi vedeva qualcosa di pernicioso, una malattia autentica e assoluta. Ma si sa, le eccezioni esistono per confermare la norma e in questo caso la convizione dominante è che la consapevolezza della nostra finitudine non si limita a fare di noi ciò che siamo, homines sapientes; ci pone anche su un piano speciale rispetto al regno animale.

Del resto, è sempre in virtù di questa convinzione se per millenni l’uccisione di un nostro simile è stata considerata un crimine mentre quella di altre forme di vita, anche quando praticata solo per mero diletto, non ha mai incontrato particolari obiezioni morali. Uccidere un nostro simile è male perché, avendo l’uomo cognizione di morire, lo si priva del bene più prezioso; quanto agli animali invece, non avendo essi cognizione di nulla, li si può privare di qualunque cosa e torturare su larga scala, come di fatto avviene negli allevamenti intensivi.

Vantaggi del presente indicativo

A quanto pare, per noi homines sapientes, sentire non basta, bisogna sapere. Non sono il dolore o la morte a fare la differenza, ma la cognizione che se ne ha. Che questa cognizione sia una prerogativa solo umana è un discrimine tutta da dimostrare, ma ciò non sembra turbare più di tanto la nostra certezza che esista una differenza radicale tra noi e il cosidetto regno animale: la differenza che Jean-Baptiste Del Amo mette in questione in un romanzo intitolato proprio Regno animale (Neri Pozza, ottima traduzione di Margherita Botto, pp. 408, € 18,00) e il cui incedere colpisce fin dalla primissima pagina: «In qualunque stagione aspetta la notte sul panchetto di legno, lo stesso panchetto di legno sul quale ha visto sedersi suo padre prima di lui, e i cui piedi avvolti dal muschio e scardinati dagli anni hanno ormai ceduto (…) Non gli è mai passato per la testa di sostituirlo, anche se fosse ridotto a un’asse appoggiata per terra. Pensa che le cose debbano rimanere così come le ha conosciute, il più a lungo possibile, come altri prima di lui hanno pensato che dovessero essere, o come l’uso ne ha fatto ciò che sono».

È un incedere lento, inesorabile, non privo di una sua tronfia serietà; l’incedere di un presente indicativo dove l’attimo corrente non è che il sembiante accidentale di un tempo più vasto. Soltanto negli scrittori di costituizione robusta l’uso del presente indicativo conferisce ai fatti narrati il carattere antico di un eterno ritorno, sublimandoli nell’atemporalità che è propria del tragico senza che il tutto risulti forzato o posticcio. Proprio grazie a questo espediente narrativo Del Amo sembra approdare a una voce necessaria, quella voce che ne fa un Cormac McCarthy d’oltralpe o uno Zola delle campagne, come è stato definito dalla critica francese. Riesce nell’impresa di scavalcare il tempo lineare inventato degli uomini, per sintonizzarsi con un presente perenne che attinge il suo ritmo dalle ragioni della terra, e nel cui scorrere sono presi anche i personaggi del libro, convinti infatti che le cose debbano restare come si sono conosciute.

Uomini simili a bestie

Da qui la lentezza, la solennità ruvida della prosa, il soffermarsi sui dettagli, il lessico brutale o ricercato, a seconda dei casi. Una lingua dura e pesante, quella di Regno Animale, descrivibile con un solo aggettivo: petrosa. Quanto all’oggetto che questa lingua petrosa racconta, può essere detto anch’esso con una sola parola: maiali. Maiali in ogni senso, dal più letterale al più metaforico. Per quasi un secolo, dal 1898 al 1981, Del Amo ci porta in Occitania, nel dipartimento di Gers, più precisamente nel villaggio immaginario di Puy-Larroque in una fattoria dove gli umani non sono dissimili dalle bestie e le cose hanno l’aria di restare da sempre così uguali a se stesse che perfino quando arriva il momento di una caduta, di una fine, il crollo appare scontato quanto il succedersi delle stagioni (sarà per questo che il libro è diviso in quattro parti?).

In principio, troviamo un uomo morente e tubercolotico, una genitrice secca e dalle mani laboriose e la loro figlia Éléonore i cui sensi vengono agitati dall’arrivo di Marcel, un lontano cugino chiamato dal padre per risollevare le sorti della fattoria. Marcel, presenza indesiderata per la genitrice, ha un piano: conta di liberare la fattoria dalla sua povertà senza futuro sviluppando l’allevamento del bestiame.

Scoppia però la guerra, la Grande Guerra. Marcel va al fronte, Éléonore lo aspetta come una Penelope occitana, senza avere notizie, tenendo in piedi l’azienda in un mondo che precipita. Alla fine Ulisse torna ma sfigurato. Privato di un occhio e parte dello zigomo, Marcel pare avere perso anche l’anima, rimpiazzata dall’alcol e dall’etere. Éléonore non gli chiede nulla del fronte. Si limita a sposarlo e mentre il paese mormora sulla liceità di quell’unione ambigua, quasi consaguinea, arrivano un bimbo di nome Henri e, con lui, l’inaspettata scoperta dei risparmi della nonna e l’acquisto di due scrofe.

Giunti a questo punto è il romanzo a precipitare. D’un colpo il lettore finisce catapultato nello stesso luogo ma in un tempo diverso, mezzo secolo dopo. Il sogno di Marcel si è realizzato con la forza di un incubo. La fattoria di un tempo è ora una fabbrica di maiali, governata con modi tirannici da Henri che incita i figli a occuparsi dell’azienda di famiglia. Là dove si viveva al ritmo eterno delle stagioni, domina ora il ciclo violento dello sfruttamento. Costretto in spazi minuscoli e maleodoranti, il maiale è carne da ingrassare, da gonfiare di antibiotici, da mutare in una bestia enorme, il verro, attrarverso l’incrocio mostruoso con un cinghiale. Ma a dispetto della follia dell’allevatore, finalizzata unicamente al profitto, il maiale resta comunque carne che espelle i rifiuti del proprio metabolismo e proprio nella grande cloaca in cui sguazza la carne destinata ai supermercati si scorge l’unica costante superstite, l’unico punto di contatto con la fattoria di un tempo.

Triste destino della marcescenza

Di ciò che legava la famiglia alla natura, agli animali coi quali conviveva, non rimane che una valanga di merda e in essa va individuata la materia profonda di un romanzo dal realismo allucinato e potente che segna forse la nascita di un nuovo Houellebecq; in essa, più che nella denuncia, pure presente, di quel crimine contro la vita, di quei lager per animali che sono gli allevamenti intensivi. In quella materia putrescente si nasconde infatti un’ironia crudele: perché se da un lato il fetore delle deiezioni ci ricorda ciò che ci vantiamo di sapere, dall’altro ci dice che i nostri corpi destinati a deperire e putrefare sono parte di un solo mondo, un mondo dove non esistono differenze sostanziali tra i viventi, dove il triste destino della marcescenza ci accomuna tutti, noi e le altre specie del regno animale.