«Si parla di vandalismo, di statue distrutte. Come se la distruzione di tanti meravigliosi giovani, vere e incomparabili statue policrome, non fosse anch’essa un vandalismo!» (Marcel Proust, Il tempo ritrovato, p.117).

Fanno bene tanti miei colleghi rispettati che si preoccupano per il destino delle statue di marmo in cui ritengono sia incorporata la storia e l’eredità della cultura occidentale. Fanno meno bene quando questa preoccupazione serve a parlare d’altro rispetto ai corpi policromi di esseri umani viventi che continuano a essere distrutti e minacciati come sempre.

Questa tendenza a parlare d’altro si manifesta in questi giorni in un uso incauto delle metafore. Faccio tre esempi.

«Proteste negli Usa: dopo le statue, nel mirino finisce anche il Monte Rushmor» )la Repubblica on line, 3 luglio).

È un mirino metaforico: nessuno ha sparato sulle facce di pietra scolpite sulla montagna; qualcuno si è permesso di ricordare che sono collocate suj terra rubata in violazione di trattati (in questo senso, sì, esprimono benissimo il senso della storia occidentale).

Nel frattempo, fuor di metafora, «nel mirino» ci finiscono ben altri bersagli: nel solo mese di giugno, anche dopo l’assassinio di George Floyd, la polizia ha ucciso negli Stati Uniti 61 persone.
«Se l’America democratica trova i propri anticorpi» (la Repubblica, 9 luglio prima pagina).

Contrariamente a quello che uno potrebbe pensare, non si tratta degli «anticorpi» al virus che, in questo stesso giorno, nel Paese più infetto del mondo, ha ucciso 1.100 persone (e sappiamo bene in quali proporzioni sociali ed «etniche»). No, la malattia di cui soffre l’America democratica durante la presidenza Trump è la «intolleranza» degli iconoclasti abbattitori di statue.

Su questa «intolleranza» intervengono adesso 150 intellettuali, anche assai rispettati e quindi non senza argomenti sensati, come Noam Chomsky (che in nome degli stessi valori ha difeso in passato il diritto di parola del negazionista Faurisson). Però anche a loro – che pure dovrebbero essere particolarmente consapevoli delle parole che usano – sfugge una metafora infelice. Come gli viene in mente di parlare di «atmosfera soffocante» dopo la morte per soffocamento per George Floyd o Eric Garner?

Allora: i sassi Mount Rushmore contano più di 61 morti ammazzati; la malattia di cui si deve curare l’America democratica non è Trump ma la «sinistra radicale»; e le migliori menti bipartisan di tante generazioni si sentono soffocare perché è a rischio la libertà di parola di razzisti e sovranisti, e non perché qualcuno gli sta mettendo il ginocchio sul collo. In altre parole: lives don’t matter e noi respiriamo benissimo.

È chiaro che ogni sommovimento sociale si porta dietro eccessi, errori, esagerazioni – che peraltro sono incentivati dalla rigidità con cui il potere e l’egemonia nelle loro varie manifestazioni si irrigidiscono anche davanti alle rivendicazioni più elementari.

Per questo, io penso che il compito degli intellettuali e dei media sarebbe non di fare fronte comune con lo status quo, ma di aiutare criticamente l’America democratica a trovare gli anticorpi al razzismo, alla brutalità poliziesca, alla crescente disuguaglianza ed emarginazione sociale che spingono le persone a scendere in strada chiedendo di ripensare anche all’eredità storico-culturale che ci ha portati a questo punto e ai suoi simboli.

Se no, a forza di metafore, tanto vale tenersi reliquie come il busto di Nathan Bedford Forrest, fondatore e Grand Wizard del Ku Klux Klan, autore di uno dei peggiori massacri della storia americana (300 prigionieri disarmati, in maggioranza neri, ammazzati a sangue freddo dopo la resa), installato nel 1970 nel palazzo del governo del Tennessee. Simbolo di tolleranza, il busto sta ancora democraticamente al suo posto. L’eredità culturale e storica che stanno salvando è anche questa.