Il post era apparso lo scorso 20 gennaio su Facebook con l’annuncio improvviso: Edgar Froese, il pioniere della più grande musica elettronica che scenario «popular» abbia conosciuto se n’era andato, tre giorni prima, portato via da un’embolia ai polmoni. Lui, l’inossidabile uomo-simbolo e epitome dei Tangerine Dream, settant’anni, una cifra non certo da persone decrepite. Tangerine sogno, quel gruppo di kraut rock che negli anni ’70, sulle pubblicità delle riviste specializzate italiane veniva pubblicizzato con uno slogan tanto semplice quanto efficace: «I Tangerine Dream iniziano dove i Pink Floyd finiscono». Come a dire che se volevate assicurarvi un viaggio psichedelico di prim’ordine, senza la compassata rete di distinguo e supponenza dei freddi albionici, era meglio rivolgersi agli (apparentemente) ancor più freddi cugini di viaggio tedeschi, i Tangerine Dream. L’album pubblicizzato con quello slogan era Phaedra, a tutt’oggi un punto non eguagliato di fusione tra ricerca e istinto, macchine pulsanti e creatività. Edgar Froese e compagni lo avevano inciso come viatico per la Virgin, che all’epoca, è bene ricordare, non era un impero economico trasversale: era un’agguerrita etichetta indipendente guidata da un tipo geniale, Chris Blackwell, che riusciva a cogliere e mettere sotto contratto ogni significativa novità riuscisse ad annusare nel mondo del rock e oltre (ad esempio Bob Marley), un mondo che, a metà dei Settanta, cominciava ad aver esaurito parecchie frecce nella faretra della creatività, prima che arrivasse lo scossone del punk. Però chi faceva ancora qualcosa di inaudito c’era. Come Phaedra, dei Tangerine Dream, 1974.
Edgar Froese ha fatto in tempo a risuonarlo per intero nel 2014, mutatis mutandis, quel disco che ha scandito i sedentari ma polposi viaggi cosmici in musica di almeno un paio di generazioni lo scorso anno, festeggiandone il quarantennale. L’ha portato anche in tour, e pure in Italia: a Torino, il 9 giugno, dove appariva affaticato e insofferente, come chi ha ancora in serbo tante idee e troppa vita, e dentro invece sente incalzare il buio che avanza.
Edgar Froese e i Tangerine Dream sono stati l’incarnazione della Kosmische Musik, della musica cosmica che i ragazzi tedeschi nati dalla generazione bruciata dei padri, soldati obbligati nella Wermacht nazista, hanno usato come un’arma di liberazione. Musica cosmica: una liberazione che, a ben vedere, promette di più e meglio che la liberazione «politica» tout court. È come la sorte ulteriore di bellezza che, nel jazz più eterodosso, Sun Ra voleva riservare a se stesso, alla sua Arkestra e a chiunque avesse avuto voglia di seguirlo nei suoi viaggi intergalattici, lontano da un mondo disarmonico e violento dove, appunto, neri e ebrei, zingari e omosessuali e comunisti e anarchici non avevano avuto di colpo più diritto a esistere.
Krautrock
In Germania il rock «alternativo», musica cosmica compresa e in primis, ovviamente, quello che il mondo ha banalizzato sotto il nome-mantello «kraut rock» (furor nominalistico-gastronomico che all’estero toccò anche ai nostri gruppi rock degli anni Settanta, etichettati come «spaghetti rock») nacque letteralmente sulle macerie dei bombardamenti alleati nelle città tedesche. Qualcuno si trovò addirittura a incidere in un bunker abbandonato: i German Oak nel 1972, peraltro non una delle eccellenze del kraut rock. Tutti o quasi i musicisti rilevanti delle popular music, comunque, presero in fretta le distanze dal rock’n’roll, dal rhythm and blues, dal mainstream Usa che filtrava dalle decine di basi americane in terra germanica, insomma, quasi tutti presero a marcare un territorio musicale completamente «altro», rispetto ai modelli più facili. Magari adorati, come i giovanissimi Beatles un po’ teppisti che suonavano allo Star Club di Amburgo, ma da superare in fretta, così come il Mersey Beat dei Beatles superò se stesso da solo con Sgt. Pepper. Spesso avendo come riferimento compositori «classici» ed eretici degli anni Cinquanta, nell’uso della nuova elettronica, come Herbert Heimert, scomparso nel ’72 e nato allo scorcio dell’Ottocento, e soprattutto Karlheinz Stockhausen che, nel secondo dopoguerra, era nel cuore espressivo più urgente della sua ricerca elettroacustica: nel suo laboratorio giravano i giovani componenti di quelli che poi sarebbero diventati i Kraftwerk (tesi a esplorare il rapporto uomo/macchina) e tre quarti dei formidabili Can.
O, ancora, in Germania si assorbirono con naturalezza le punte estreme della psichedelica inglese e Usa, conosciute in tempo reale con l’importazione dei 33 giri, il ciclone di idee e di musica incarnato nel corpo magro e nel viso baffuto di Frank Zappa, o nella cattiveria «politica» dei Fugs e degli MC5, le jam session infinite nei concerti da quattro ore dei Grateful Dead, la primordiale e anticipatrice forza iterativa dei Velvet Underground. E ancora: il free jazz, annusato e digerito in tempo reale assieme alle bordate di futuribile jazz rock iterativo di Miles Davis nel pieno del suo periodo elettrico «maledetto», il folk della propria tradizione e quello degli altri popoli per la prima volta ascoltato come un’ulteriore zona franca della libertà. Insomma: tutto e il contrario di tutto, purché fosse nuovo, stimolante, foriero di ulteriori avventure estreme. Come di fatto avvenne, lasciando il segno. Dobbiamo a Simon Reynolds, il teorico della «retromania» imperante nel rock contemporaneo (di ricerca e no) essersi accorto che, a dispetto di tante storie del rock scritte a partire da una sorta di anglocentrismo, oggi chi parla di «post rock» è costretto, né più né meno, a citare a piene mani i nomi dei protagonisti del kraut rock come autentici antesignani del genere, 25 anni dopo.
Non fu un fenomeno appoggiato dai media di allora, né una moda: s’impose da sé, nel coinvolgimento reticolare di migliaia di musicisti di Berlino, di Düsseldorf, di Bonn, di Dresda, di Monaco. A Ovest, soprattutto, ma anche nella Ddr, la Repubblica democratica guardata a vista dai custodi della «cortina di ferro». Assai più creativa, in termini di produzione di kraut rock, di quanto si sarebbe portati a credere. Riassumendo a volo d’uccello chi furono i protagonisti del kraut rock, lasciando per ora da parte i fautori della «musica cosmica», chi presero a modello, cosa fecero, in una discografia che conta diverse migliaia di dischi, si potrebbero mettere diversi paletti stilistici importanti. Gli Amon Düül di Monaco, ad esempio, nati come comune, e poi divisisi in due tronconi (il secondo noto come Amon Düül II) presero a modello i maestri di psichedelia estrema inglese Hapshash & The Coloured Coat, ampliandone ulteriormente il folle pastiche sonoro, a volte divagando in ambiti curiosamente «marziali» o kabarett, tratti assunti anche dai maestosi e bizzarrissimi Faust, tuttora attivi anche se divisi in due tronconi.
Gli Ash Ra Temple e i Guru Guru partirono invece dalle dilatazioni psichedeliche di Set the Controls for the Heart of the Sun e Astronomy Domine dei primi Pink Floyd, per addentrarsi in zone decisamente poco mappate, più o meno gli stessi estremi toccati centinaia di volte da Jerry Garcia con i suoi Grateful Dead quando, a un certo punto delle serate, si entrava nella terra dell’indeterminazione di Dark Star. Musica cosmica e non solo, dunque.
I Can scoprirono il fascino di un futuro remoto riorganizzandosi come primordiale macchina ritmica rock e avantgarde, tra tempi scanditi implacabili e arcana vocalità, e grossomodo sulle stesse piste si mossero i Neu!, rallentando e velocizzando all’infinito le medesime tracce incise. Altri ancora scelsero un’ibrida terra di nessuno che metteva in conto più fonti d’ispirazione assieme: gli Annexus Quam, i Brave New World, i misticheggianti Popol Vuh, gli anticipatori della world music Embryo. Qualcuno prese le piste dello space rock tratteggiato in Inghilterra dagli Hawkwind: ad esempio gli Eloy, i Mythos, i Grobschnitt.
Kosmische Musik
Ed eccoci ai Tangerine Dream di Edgar Froese, e a tutti gli altri «corrieri cosmici» . Dobbiamo agli inglesi Steven e Alan Freeman, autori del pignolissimo e affascinante The Crack in the Cosmic Egg/Encyclopedia of Krautrock, Kosmische Musik & Other progressive, Experimental & Electronic Musics from Germany l’aver rintracciato dove, per la prima volta nelle note popular, apparve l’aggettivo «cosmic» accoppiato a «sounds»: in un disco degli americani Zodiacs, 1967. Chissà, forse non è vero, e chi ha voglia di farsi un giro su Internet magari troverà altri apporti precedenti, ma sta di fatto che nella Germania del secondo dopoguerra la «musica cosmica» è ben più che la bizzarria di qualche critico musicale rock in sospetta euforia da alcaloidi. È un nome e un programma. Tant’è che un giovane e polemico Eugenio Finardi, nel 1976, rimprovera nel testo di Musica ribelle a un giovane rockettaro italiano di dar troppo conto «alle porte del cosmo, che sta lassù in Germania».
Oggi sarebbe una specie di frase in codice che nessuno capirebbe, un indizio criptato. Allora tutti (almeno: tutti quelli che seguivano la musica rock e alternativa con interesse) capivano al volo: in Germania c’erano gli esploratori cosmici del suono, una faccenda avvertita come parecchio lontano dall’esigenza di immediati «testi di lotta» da ritrovare negli slogan scritti sui muri con la vernice. Le porte del cosmo? Che stanno su in Germania? Succede tutto più o meno così: al centro metteremo la scena di Berlino, che allo scorcio degli anni Sessanta ha decine, centinaia di band studentesche che suonano i successi del rock americano e inglese. Nei primi mesi del ’70 il giornalista rock Rolf-Ulrich Kaiser assieme a Peter Meisel fonda la Ohr Records (e dunque: i Dischi dell’orecchio!), in catalogo tutta la follia possibile che sta valicando i confini del rock sonnacchioso: e dunque jazz d’avanguardia e psichedelia, e anche quello che alcuni già stanno definendo «musica cosmica». Spin off della storica Ohr saranno per decisione di Kaiser l’etichette Pilz («fungo», e non certo i porcini per arricchire il sugo della pasta), nata in origine come una specie di diramazione folk, in realtà, e siamo sempre lì, più «folk cosmico» e stralunato che altro (Popol Vuh, Emtidi, Anima, e altri musicisti folli e raffinati), e la Kosmische Musik, con una serie di dischi capolavoro che gli appassionati di kraut rock mettono come santini sull’altare delle promesse mantenute. Ad esempio coloro che prendono proprio le mosse, nel nome, da quello dell’etichetta, quasi una questione di essere espliciti fin dall’inizio: i Cosmic Jokers, testimonianze discografiche tra il ’73 ed il ’74, tre dischi veri e propri, una curiosa compilation. Si prende le mosse da certo space rock inglese, gli Hawkwind, nell’uso consistente di chitarre gementi e spesso in feroce distorsione wha wha, si aggiungono al tutto strati e strati di tastiere elettroniche analogiche deliziosamente ronzanti, i primi sintetizzatori monofonici, si mischia il tutto con coltri di minaccioso e ovattato suono di mellotron, quel curioso strumento a tastiera da modernariato che, alla pressione di un tasto, faceva partire un «loop» di nastro magnetico con archi registrati. Si parte per il viaggio «cosmico».
I Cosmic Jokers furono in realtà una creatura di studio del citato Rolf-Ulrich Kaiser: che aveva convocato inizialmente in studio gente dagli Ash Ra Temple e dai Wallenstein, giusto per vedere che succedeva a lasciarli improvvisare liberamente e senza guardare l’orologio. Aggiungendo spezie di acido lisergico che il «viaggio cosmico» te lo facevano fare «a prescindere», come avrebbe detto il Principe De Curtis.
Non era solo mecenatismo teuton-freak, naturalmente, Kaiser era tale di nome e di fatto, e aveva anche voglia di commercio e di prendere in mano le cose. I nastri per fortuna uscirono, ed ora in una buona discoteca «cosmica» e «kraut» non devono mancare almeno The Cosmic Jokers, Galactic Supermarket e Planeten Sit-In. La prima session che viene considerata a tutti gli effetti come una seduta dei Cosmic Jokers, e dunque con apporti da gruppi vari, ma senza il nome-cappello, è considerata però quella di Sergius Golowin, un personaggio davvero interessante. Praghese, emigrato in svizzera, pittore, poeta, cantante, ecologista, ex parlamentare e quindi non esattamente coetaneo degli altri corrieri cosmici, ma soprattutto amico di Timothy Leary, il vitalissimo scrittore, psicologo, attore americano che già aveva fatto una bella campagna a favore delle droghe psichedeliche in patria, nella California psichedelica dello scorcio degli anni Sessanta. «L’uomo più pericoloso del mondo», come l’aveva definito Richard Nixon. Leary poi all’inizio dei Settanta, mentre era in Svizzera praticamente in esilio aveva incrociato il suo percorso con quello degli Ash Ra Temple, ed ecco che tornano tutti i conti. Il disco di Golowin è Lord Krishna von Goloka, uscito in origine nel ’73, e diventato un piccolo grande oggetto di culto.
Recitazione criptica e ieratica del nostro, e sotto lunghissime, tempeste di suono che a volte evolvono in incredibili momenti sospesi. Per certi versi spiritualmente e musicalmente affine al disco di Golowin è quello inciso per l’etichetta cosmica di Kaiser da Walter Wegmüller e uscito nello stesso anno di Lord Krishna. Il disco è Tarot. Confezione originale splendida, con i Tarocchi disegnati da Wegmüller stesso: mistico, pittore, poeta, insomma un tipo assai vicino a Golowin. Ne condivide anche i musicisti, nel suo doppio ellepì «cosmico» con curiosi innesti folk sciolti in un mare di note cosmiche, e la consueta pasta sonora con l’armonico impasto di tastiere elettroniche analogiche e chitarre fluttuanti. Introduciamo a questo punto il musicista kraut e «cosmico» più amato della scena, assieme appunto al nostro compianto Edgar Froese da cui abbiamo preso le mosse. Si parla naturalmente del grande Klaus Schulze, che comincia la sua storia musicale a Berlino come batterista rock puro e crudo, ma poi si trova a studiare con gente come Ligeti (antesignano secco della «musica cosmica»: ricordate la colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio?), Kessler, Blacher, e allarga gli orizzonti. È lui dietro la batteria dei primissimi Tangerine Dream, poi è con Ash Ra Temple, e infine, diventato tastierista e conoscitore sopraffino delle prime, fascinose tastiere elettroniche si mette per proprio conto: e nasce Irrlicht, 1972, pietra miliare della musica cosmica, per molti versi vicina a quanto avevano fatto Stockhausen e Maderna: fondali e drones, organo «trattato» a confronto con l’orchestra, gli spazi dilatati all’inverosimile. Un viaggio, appunto. Ripreso nei Cosmic Jokers, ma approfondito da one man band, (come poi avrebbe fatto Mike Oldfield in Inghilterra con le sue suite tutte figlie di Tubular Bells), con tante splendide tappe, una volta acquisita familiarità con le «nuove» tastiere elettroniche: Cyborg del ’73, Blackdance del ’74, Picture Music del ’75, e via citando, fino ad oggi. Farscape, ad esempio, del 2008, sigla l’incontro del pioniere cosmico con Lisa Gerrard, fascinosissima vocalist australiana dei Dead Can Dance. L’inizio degli anni Settanta è marcato anche da un’altra formazione cosmica, gli Harmonia: ne fanno parte il tastierista (e multistrumentista) Joachim Roedelius, cresciuto in una famiglia di organisti in quella che poi sarebbe diventato Berlino Est, polistrumentista eccellente, Michael Rother, chitarrista e tastierista, e Dieter Moebius, altro mago delle tastiere elettroniche. In Musik von Harmonia, 1973, un brano che è tutto un programma: Sehr Kosmische. Poi arriverà un batterista, Mani Neumaier, per il successivo Deluxe, ma nel ’74 succede una cosa davvero speciale: al Fabrik Club di Amburgo gli Harmonia incrociano le tastiere «cosmiche» con un signore inglese che ha voglia di saggiare futuri «paesaggi sonori»: è Brian Eno, e i frutti futuri si ritroveranno a nome Cluster & Eno.
Inutili cercare altri nomi cosmici, a questo punto: ne esistono a decine. Eravamo partiti nel segno del grande Edgar Froese, con lui chiudiamo: «il» gruppo di musica cosmica è stato, per antonomasia, Tangerine Dream. Nati per volontà di Edgar Froese nel 1967, quando l’Europa covava la grande fiammata libertaria, che in Germania avrebbe appunto assunto anche le forme del viaggio in musica negli spazi siderali. Froese, studente di Belle Arti a Berlino aveva incontrato Salvador Dalì quando ancora era il leader degli Ones, convocati a suonare nella villa del pittore a Cadaqués: è il bizzarro pittore degli «orologi molli» e del subconscio a consigliargli di osare di più, con la musica. Detto fatto.
Un primo album nel ‘70, Electronic Meditation, un secondo, Alpha Centauri, nel ’71, che già dal titolo indica la direzione «siderale» della musica, e abbozza le coordinate «cosmiche». Fanno Seguito Zeit e Atem, e poi arriva il capolavoro, Phaedra, 1974. Un turbine quieto di tastiere e sintetizzatori che fa viaggiare molto, molto lontano, e riesce ad essere pure straordinariamente comunicativo. Tant’è che il tour europeo conseguente è nelle cattedrali, a partire da Reims, in Francia: sul palco c’è anche Nico, indimenticabile chanteuse con i Velvet Underground. Da allora Edgar Froese manterrà la «ragione sociale cosmica» Tangerine Dream per i successivi quarant’anni, alternando prove con la gloriosa sigla a opere firmate a proprio nome, a partire da Aqua, 1974. Quasi trecento, una cifra da vertigine. Di tanto in tanto, ancora colpi memorabili e degni del passato: Melrose, 1990, Mars Polaris, 1999, The Seven Letters from Tibet, 1999. Quando se n’è andato, Edgar Froese aveva appena completato la sua autobiografia, Tangerine Dream – Force Majeure 1967/2014, uno scritto che, in buona parte crediamo corrisponderà alla storia dello stesso kraut rock. Una volta aveva scritto: «Quando si muore non si muore davvero. Si prende un altro indirizzo cosmico».