Dalla stazione dei pullman di Gerusalemme, subito fuori dalla Porta di Damasco, il viaggio dura circa un’ora. Superato il check-point – dove ormai si passa senza problemi, vista la «normalizzazione» dell’occupazione israeliana in Palestina – si giunge a Ramallah. La città ha ospitato, recentemente, il settimo convegno dell’International Critical Geography Group (Icgg). I quattrocento relatori, giunti da ogni parte del mondo, hanno condiviso tre richieste: la fine dell’occupazione militare israeliana su Gaza, sulla West Bank – inclusa Gerusalemme est – e sulle alture del Golan; il riconoscimento di uguali diritti ai palestinesi cittadini di Israele; che ai rifugiati palestinesi venga accordato il diritto di ritorno nelle terre e nelle case dalle quali sono stati cacciati.

Attivismo e pratiche di ricerca

L’importanza di questo convegno sta nel pensare la geografia – disciplina che per secoli è stata centrale nel rappresentare lo spazio delle nazioni e degli imperi – in stretta relazione con i saperi critici (dalla teoria postcoloniale al queer). Questa prospettiva non si limita a denunciare le forme di potere presenti e passate, ma si propone anche di comprendere le continuità e le discontinuità di narrazione tra momenti e luoghi diversi. Ne consegue una mappatura dello spazio che usa la produzione di sapere come strumento per decostruire le genealogie di soggettivazione, parlando all’accademia così come ai movimenti sociali. Quale posto migliore per questo convegno se non la Palestina che, come ricordano gli organizzatori, «è stata sconvolta dal colonialismo europeo, dall’imperialismo americano» e dal sionismo post-1948.

Dieci sessioni, ottantacinque panel: questi i numeri della cinque giorni. Un programma fitto, senza contare i field-trips a Ramallah, alla valle del Giordano, a Nablus e Betlemme, a Jaffa e Gerusalemme. Numerosi sono stati i temi dell’Icgg 2015: geografie imperiali, coloniali, postcoloniali; articolazioni e spazi del capitalismo; migrazioni, mobilità e displacement; natura, società e trasformazioni ambientali; mappare i corpi, corporalità e violenza; sviluppo di geografie critiche dal sud globale; geografia, materia e materialità; rifare lo spazio attraverso l’ideologia, la cultura e le arti; produzione dello spazio, educazione e agende epistemiche.

Dalla Turchia alla Spagna, da Taiwan al Messico, dall’Italia all’Inghilterra, dagli Stati Uniti alla Cina, i relatori, in cui spiccava la presenza maggioritaria femminile, erano prevalentemente giovani under-35. Un convegno proposto dai critical geographer, ma aperto a tutti gli studiosi – storici, sociologi, antropologi – così come agli attivisti, ai performer, agli artisti.

Numerosi i nodi tematici affrontati. Tra questi la tensione tra periodo coloniale e condizione postcoloniale è stata problematizzata in numerosi casi di studio: Gaza, Haiti, il Cairo, Brasile, Siria, Pakistan, Punjab, Bolivia e Sud Africa. Le migrazioni sono state l’altro grande tema delle relazioni: Kartoom, Hong Kong, la Georgia e il Sud Est asiatico, dalla Turchia alla Grecia, dal Messico agli USA, dall’Africa all’Europa. Le pratiche di gentrification, di sviluppo del capitalismo sono state indagate da molteplici punti di vista, in contesti differenti e con prospettive multiple. Così anche per il rapporto tra genere e saperi nel processo di ridefinizione del rapporto tra vita e spazi della città.

Una campagna internazionale

Durante il convegno Icgg è stato approvato a grande maggioranza un documento che propone il boicottaggio come pratica politica nei confronti delle istituzioni e delle università israeliane.

Ecco come si è arrivati al voto. Una prima riunione plenaria ha spiegato le finalità di questa pratica di lotta – presente, tra gli altri relatori, anche Omar Barghouti, fondatore della campagna internazionale. Nata nel 2005, al termine della seconda Intifada e all’apice della «guerra al terrore», dall’iniziativa della società civile palestinese, la campagna si propone di usare la pratica del boicottaggio, del disinvestimento e delle sanzioni contro Israele quale forma di protesta per la lunga scia di violenze istituzionali nei confronti dei palestinesi.

Il convegno ha infine approvato un documento in cui: si stabilisce «l boicottaggio accademico e delle istituzioni culturali israeliane che sono complici con le pratiche di oppressione e il progetto di insediamenti coloniali da parte dello stato di Israele»; si intende il boicottagio in stretta continuità con l’antirazzismo, il femminismo, il queer dei movimenti sociali; ma anche con la pratica di decolonizzare lo sguardo della geografia e delle altre scienze sociali.

Nella «normalizzazione» della West Bank, tra sviluppo capitalistico e diffusa corruzione nei partiti politici palestinesi, tra moltiplicazione degli insediamenti e violenza israeliana – agita tanto dai coloni quanto dai soldati israeliani – questo convegno è una ventata di speranza, non solo per la Palestina. Scriveva Edward Said in Cultura e Imperialismo : «nessuno di noi è al di fuori o al di qua della geografia, nessuno di noi si può astrarre completamente dalla lotta sulla geografia. Questa lotta è complessa e interessante perché non riguarda solo soldati e cannoni ma anche idee, forme, immagini e immaginari».