Cultura

Le mappe ricamate del colonialismo

Le mappe ricamate del colonialismoServet Koçyigit, «My Heart is Not Made from Stone (Together»), 2016 – Courtesy of the artist & Officine dell'Immagine

Intervista Un incontro alle Officine dell'Immagine di Milano con l'artista turco Servet Koçyigit, in occasione della sua personale curata da Silvia Cirelli

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 24 febbraio 2019

C’è un’isola che è vicino al cielo, piccola come un’ala di farfalla e immersa nel blu di un mare che non è chiuso e solitario come quello (il Mar Caspio) a cui Nazim Hikmet ha dedicato una sua poesia. Anche per Servet Koçyigit (Kaman, Turchia 1971, vive e lavora tra Amsterdam e Istanbul) è più che un semplice luogo geografico: nell’opera Island close to the sky (2015), esposta in occasione della sua seconda personale When the Lion comes out of the Shade, curata da Silvia Cirelli alla galleria Officine dell’Immagine Contemporary Art di Milano (fino al 23 marzo), è una mappa in cui il disegno digitalizzato è ricreato sul feltro e ricamato. «Mi piace il feltro per questo suo effetto tridimensionale – spiega l’artista – l’isola, in realtà, è una roccia disabitata in mezzo all’oceano su cui era puntata una bandiera. Nel mio lavoro ho voluto rappresentare l’idea di possesso di un paese sull’altro».

Nelle mappe di Koçyigit c’è sempre quello che non si trova nelle consuete carte geografiche, permeate d’ipocrisia: la componente umana. Le cinque mappe della serie My heart is not made from stone, sospese nello spazio espositivo, presentano interventi pittorici realizzati da un giovane pittore sudafricano a cui l’artista ha affidato l’incarico di riprodurre le illustrazioni di gemme preziose, che avevano attirato la sua attenzione sfogliando un libro d’epoca per bambini (pubblicato in Olanda) sulle miniere. «Un libro molto innocente in cui si parla dei minerali, ma non c’è traccia della ripercussione delle miniere sulle persone né viene accennato il problema del colonialismo».
Osservando quelle carte geografiche realizzate in Olanda che si riferiscono alle Indie Orientali e ad altre colonie come Suriname e Curaçao, a Koçyigit è apparso evidente «che non sono state redatte chi vive in quei paesi, per rendere la loro vita più confortevole, ma con l’intento colonialista di accaparrarsi i prodotti di maggior valore e portarli in Europa. La cartografia non è mai scientifica, è al servizio della storia e la storia la scrive chi ha il potere».

Koçyigit insiste sull’idea di movimento, in parte connessa agli effetti del colonialismo sulla cultura, soprattutto lì dove il linguaggio della mappa è riprodotto visualmente con impunture, ricami e bottoni sui tessuti assemblati «wax print», sui «batik» indonesiani (Golden Lining, 2016), su quelli sudafricani coloratissimi dei Tsonga di etnia Bantu (Tsonga, 2017) o anche sui «basma» turchi con il loro carattere autarchico (Lukewarm Shores, 2018). L’artista se ne serve per ridefinire attraverso la narrativa umana – quindi non più punti e linee, ma gruppi di persone – una cartografia che stimola riflessioni sulle ibridazioni culturali e su ciò che chiamiamo tradizione.
I popolarissimi «basma», infatti, prodotti soprattutto nell’area di Bursa e diffusi a basso costo (l’artista li acquista a Istanbul) fanno parte, in realtà, di una storia recente quando Mustafa Kemal Atatürk per l’autonomia della giovane repubblica turca chiese lo sforzo di utilizzare esclusivamente prodotti nazionali: «prima di allora questi tessuti non ci appartenevano, ma dopo sono diventati tradizionali».

La mappa è un oggetto in sospensione, un luogo virtuale di legittimazione di spazi reali. In che modo, le sue cartografie negoziano il concetto di confine/libertà attraverso la declinazione dell’immaginario?
La ricerca è partita dalla cartografia, quindi da mappe geografiche in cui ci sono confini, strade… Ma quello che ho visto e capito è che nessuna mappa – specialmente quelle esposte in mostra – è basata su una relazione con gli individui. È per questo che ne ho voluto creare alcune che, se da una parte sembrano immaginarie, dall’altra sono reali perché parlano proprio delle persone.

Nella serie fotografica quelle stesse mappe sono affidate a figure umane circondate da una natura desolata…
Questo ciclo di lavori è nato nel 2016, durante la mia residenza a Johannesburg. Anche prima di arrivare in Sudafrica, e poi durante la residenza, avevo fatto molte ricerche per cercare di capire il luogo, soprattutto dal punto di vista umano. Johannesburg è una città nata intorno alle miniere d’oro: è un luogo di emigrazione in cui sono visibili gli effetti della colonizzazione. Quello che ho cercato di fare con queste fotografie realizzate in oltre un mese e mezzo, è stato proprio mappare la terra. Quanto al medium che utilizzo sono molto flessibile. Non preferisco necessariamente la fotografia o il video, si tratta di volta in volta di vedere qual sia lo strumento più adatto per il progetto. Certamente sia la fotografia che il video lavorano sul tempo e un altro loro aspetto che m’interessa è la mobilità. Per me è importante il concetto di adattabilità, sia come artista che come uomo. Io stesso sono emigrante perciò devo essere sempre adattabile alle situazioni.

Sono numerosi gli artisti contemporanei affascinati dalla cartografia, collezionisti essi stessi o interpreti di mappe reali e immaginarie: Alighiero Boetti, Shilpa Gupta, Emilio Leofreddi, Giovanni Ozzola, Qiu Zhijie, Maïmouna Guerresi, Tarshito… Quanto è importante l’incidenza della casualità nella sua ricerca dell’oggetto in un mercato di Amsterdam?
Bisogna essere molto aperti quando si ha a che fare con la creatività. È importante la casualità, ma soprattutto bisogna lasciare spazio all’intuizione. Quando ho creato la prima mappa di tessuto ho utilizzato la shemag, tipico copricapo mediorientale. Non sapevo quale direzione avrebbe preso il lavoro, mi sono lasciato guidare dall’intuito. A volte, la scelta è basata sull’estetica e sulla casualità come quando, sempre in un mercato di Amsterdam, ho trovato un tessuto africano wax print scoprendo successivamente che era stato fatto in Olanda. È stato l’inizio di una serie di riflessioni nelle quali ho approfondito la ricerca su diversi tessuti, cercando il loro posto nella storia e il significato all’interno della cultura.

Nel suo lavoro l’azione ludica è un gesto politico. Approcciare la realtà con apparente leggerezza nasce dalla sua esperienza di ragazzo cresciuto nella Turchia degli anni ’80, oppressa dal regime militare del generale Kenan Evren, quando l’umorismo era un modo per aggirare la censura?
Sì, è così. L’umorismo permette di non confrontarsi direttamente con le questioni politiche. Può sembrare leggero, ma rinforza un concetto. Nel mio lavoro, che è sempre politico, l’umorismo e la satira sono un’arma, un atto di resistenza. È un modo intelligente ben conosciuto nella storia, ma che sicuramente io ho trovato nell’ambiente in cui sono cresciuto.

Argomenti come le ripercussioni dell’eredità coloniale sulla società contemporanea, la multiculturalità, le frontiere sono esplorati nelle opere in mostra. In particolare, in «Tsonga», «Lukerwarm Shores», «Golden Lining» la scelta del tessuto, il suo assemblaggio, la reiterazione del gesto della cucitura è un processo che restituisce anche una memoria legata alla tradizione turca della tessitura, del ricamo e della decorazione?
Certamente. Il mio interesse proviene da qualcosa che appartiene alla mia memoria. Ho sempre visto mia madre e mia sorella cucire. Ma non è la tradizione in sé che voglio portare nel mio lavoro, piuttosto è una ricerca sul linguaggio. Fin dalle mie prime opere, ho utilizzato l’uncinetto e la decorazione artigianale: mi affascina la ripetizione del gesto. In Sometimes (2005) ho provato a capire l’uso del linguaggio, della parola attraverso l’uncinetto, con cui ho formulato una frase qualunque, priva di un significato specifico (la frase ricamata all’uncinetto è «Sometimes I check the fridge ten times to see if it is really closed – A volte controllo il frigo dieci volte per vedere se è chiuso», ndr). C’è un detto turco secondo cui tutto ciò che si legge diventa realtà. In un’epoca in cui la parola deve essere veloce, ricorrendo a una tecnica tradizionale ma applicata al linguaggio in un modo concettuale e attraverso la ripetizione in un periodo di tempo lungo – dai tre ai sette mesi – ho potuto rallentare il linguaggio stesso. In questo caso si tratta di una frase sciocca che, però, esprime anche l’ironia della comunicazione.

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