Sono ormai mesi che le voci di un prossimo attacco turco contro Kobane si rincorrono. Le forze di autodifesa curde maschili e femminili, le Ypg e le Ypj, e le unità multietniche delle Forze democratiche siriane (Sdf) sanno che quel fronte non è mai stato chiuso.

E dopo mesi di bombardamenti continui in giro per il Kurdistan, in Siria e in Iraq, dal campo di Makhmour alle montagne di Qandil fino alla regione di Shengal, quelle voci si fanno minaccia concreta.

Turchia e Russia starebbero negoziando un’operazione militare, gestita da Ankara, contro Kobane per ripulirla della presenza delle unità Ypg e Ypj, considerate dallo Stato turco affiliate al Pkk e dunque gruppi terroristici. Lo riporta il ben informato portale Middle East Eye, citando fonti anonime: la bozza di intesa prevedrebbe il mantenimento di una presenza militare russa intorno alla città, mentre ai turchi andrebbero le aree periferiche collegate con la strategica autostrada siriana M4, che corre da ovest a est del nord del paese, lungo il confine con la Turchia.

Ankara non invierà i suoi proxy, miliziani jihadisti impiegati nel resto del Rojava occupato, e Mosca farà ritirare verso sud le forze di autodifesa curde, il secondo punto dell’accordo.

Funzionari turchi, parlando con Bloomberg la settimana scorsa, avevano inserito nell’equazione anche Idlib, ovvero la possibilità di cedere alla Russia parti dell’ultima provincia siriana in mano ai gruppi qaedisti e jihadisti (e per questo ancora oggetto di bombardamenti russi e governativi), in cambio del via libera a Kobane.

Di certezze al momento non ce ne sono. E i messaggi sono contraddittori. Come l’arrivo di quattro jet russi Su-35 all’aeroporto di Qamishlo, “capitale” dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est, che fanno pensare che un’operazione turca contro il Rojava non sarebbe ben vista da Mosca.

Ma ci sono anche i fatti sul terreno: l’esercito turco, riporta al-Monitor, sta inviando rinforzi nel nord-est della Siria, mentre membri dell’Esercito libero siriano (alleato di Ankara) sono volati il 25 ottobre scorso in Turchia per coordinare un’eventuale operazione con i leader militari turchi.

Secondo la stampa turca, sarebbero pronti 35mila uomini da dispiegare contro Manbij, Ain Issa e Tel Temer, tanti altri quelli in fase di addestramento.

Appena una ventina di giorni fa era stato lo stesso presidente Erdogan a minacciare un ampliamento dell’intervento in atto dal gennaio 2018 (l’operazione Ramoscello d’Ulivo che portò all’occupazione del cantone occidentale di Afrin, poi Fonte di Pace nell’ottobre 2019 con la presa di 41 comunità tra cui le città di Gire Spi e Serekaniye, a est): dopo un attacco nella città siriana di Azaz e l’uccisione di due gendarmi turchi attribuita da Ankara alle Ypg/Ypj, Erdogan aveva parlato di «ultima goccia» e di imminente operazione per eliminare il problema alla radice. «Compiremo i passi necessari in Siria il prima possibile», aveva detto lasciando poco spazio alla fantasia.

Ma in Siria non decide tutto Erdogan. Ha bisogno di sponde. Nell’ottobre 2019 le aveva ricevute prima dagli Stati uniti di Donald Trump che, ritirando i marines, aveva dato luce verde all’invasione turca; poi dal presidente Putin. Il 22 ottobre 2019 a Sochi i due si erano accordati per il ritiro delle Ypg/Ypj dalle zone di confine, con Mosca che di fatto riconosceva l’occupazione (illegale) di un corridoio di Siria del nord-est lungo 100 chilometri.

Con in mano una mappa della Siria, dopo sette ore di bilaterale, i due avevano dato vita a una «safe zone» che altro non era che l’inizio di un’occupazione militare che dura ancora oggi, fatta della cacciata di centinaia di migliaia di residenti originari e di una palese operazione di ingegneria demografica, di rapimenti e arresti, di una gestione qaedista della vita dei civili rimasti.

Ora alla Turchia si presenta l’occasione di chiudere il cerchio. Primo, prendere Kobane (nonostante le truppe russe i droni turchi non hanno mai cessato di far piovere bombe: è successo due volte negli ultimi dieci giorni, tre combattenti delle Sdf e due civili uccisi). Secondo, collegarla alle zone orientali già occupate, Gire Spi e Serekenaye.

Ancora una volta la tempistica è inquietante: la notizia ha iniziato a circolare il primo novembre, la Giornata mondiale per Kobane. Era il primo novembre del 2014 quando milioni di persone in tutto il mondo scesero in strada in solidarietà con la resistenza del cantone all’assedio dello Stato islamico.