Ancora un 25 Aprile, e le polemiche fioccano e partono gli usi e abusi politici di quella data a fini beceramente elettorali. Eppure si tratta di una ricorrenza che dovrebbe, a oltre settant’anni, essere ormai parte integrante del patrimonio civile, riconosciuta, e festeggiata, come tale, da tutti.

Il basamento sostanziale dell’Italia intesa come Repubblica dei partiti, fondata sulla Costituzione, è precisamente il 25 aprile 1945. Del resto, se vogliamo istituire una corona delle date basilari della nazione, dopo il fascismo dobbiamo disporre in sequenza l’8 settembre del ’43, il 25 aprile del ’45, il 2 giugno del ’46, e il 1° gennaio del ‘48: la prima data è la rinascita della patria, sottratta al vilipendio e allo sconcio abuso fattone dal fascismo; la terza la nascita formale della Repubblica, col referendum abrogativo della Monarchia; la quarta l’entrata in vigore della Carta Costituzionale, redatta nel biennio postreferendario. Al centro di quel quinquennio ’43-’48, si colloca il 25 aprile, che come le grandi date storiche, sarebbe bene scrivere in cifre romane, e con la maiuscola, come il XX Settembre…

Ci hanno provato, reiteratamente, ad annullare il valore di questa data; hanno ripetuto trattarsi di una data «divisiva» mentre occorre arrivare alla concordia nazionale, che si fonderebbe sulle «memorie condivise», sulla «pacificazione degli animi», sulla fine della «guerra delle memorie»… Hanno tentato di sostituire quella data con il 4 novembre, presentato come effetto della «union sacrée» di partiti e spiriti che condusse alla «vittoria» nella Grande guerra; hanno detto via via che non era obbligatorio per un governante festeggiare il XXV Aprile – metto il numero romano considerando la data fondativa del nostro attuale ordinamento democratico -, o che v’era di meglio da fare (andare al mare, giocare con figli o nipoti, guardare la tv, persino leggere un libro…); ovvero che comunque trattandosi di una data «di parte», chi non era di «quella parte» non doveva sentirsi obbligato a commemorarla.

Una sequela di proposizioni e giustificazioni prive di buon senso, oltre che di senso storico, espressioni di un mediocre qualunquismo che si colloca, a ben vedere, al di fuori del perimetro della comunità nazionale, la quale, ribadiamolo, si fonda proprio su quelle quattro date succitate, e la «data delle date», la data principe, che richiama, con la liberazione di Milano, da parte delle squadre partigiane, la fine del fascismo, è appunto il 25 aprile 1945.

Ora certamente l’ultima esternazione dell’incontinente Salvini, il ministro di tutti i ministeri, è fastidiosa, e pretestuosa, come ogni sua parola, ma conosciamo il suo ghigno feroce alternato al sorriso bonaccione, l’uno e l’altro grottesche rappresentazioni di un classico finto capo, direbbe Gramsci.
E in fondo non dobbiamo preoccuparcene più di tanto: lui è soltanto, in modo folcloristico, il punto d’arrivo di un percorso che la destra ha compiuto almeno a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, e soprattutto dopo il 1989.

È questo percorso a preoccupare, percorso storiografico, culturale, politico, nel cui hardcore v’è l’intento di derubricare il fascismo da regime totalitario a una fase come un’altra della storia patria, e, per riprendere la famosa proposizione di Renzo De Felice, se il fascismo è morto, non v’è ragione di far sopravvivere, forzatamente, inutilmente l’antifascismo. Anche recentissimamente, v’è chi, storico togato in Accademia, ha rilanciato la tesi della superfluità dell’antifascismo, della sua assoluta inattualità, essendo del tutto inesistenti gli indizi di un ritorno del fascismo.

Ma chi abbia occhi e orecchie sa che mentre si fanno prove tecniche di regime, vede già un fascismo molecolare, il fascismo passato nelle teste e nei cuori di troppe persone, quel fascismo che si esprime attraverso una perdita di umanità, un disprezzo della vite degli altri, una ferocia fatta di atti e di parole, un razzismo dei piccoli gesti della quotidianità, alternato a vere azioni di tipo squadristico, mentre sempre di più il fascismo storico viene guardato con benevolenza, talora con simpatia, e nelle tabaccherie si trovano i busti neri del duce, magari non proprio esposti in vetrina (ma a volte sì, impudentemente), e non soltanto a Predappio, divenuto luogo di un turismo mussoliniano, sovente con la connivenza di istituzioni democratiche e antifasciste…

E tutta la storia alle nostre spalle viene ancora una volta banalizzata e riproposta in chiave di dibattito televisivo, per cui ciascuno è autorizzato a «dire la sua», mentre, parallelamente, si impone, magari a suon di leggi, in un inquietante silenzio della comunità democratica, se ancora esiste, e nell’emarginazione quasi totale dei professionisti della ricerca storica, qualche «verità» di Stato.
Il «caso foibe» è paradigmatico del successo raggiunto dal combinato disposto fra pseudostoria dei media (basti pensare ad alcune figure di storici ufficiali che ormai compaiono inesorabilmente in tv a consacrare la nascita della storia secondo il palinsesto della televisione), cedimento della ex sinistra storica sui punti essenziali del proprio identikit ideologico, e revisionismo storiografico-giornalistico giunto ormai da oltre un decennio alla sua fase estrema, «rovescistica».

Una mezza verità, decontestualizzata e condita di particolari «cinematografici», ossia una menzogna vera, diventa «verità politica», che ha il solo scopo di rilanciare e corroborare la nuova stagione dell’eterno anticomunismo.

Dunque i partigiani, da eroi divenuti canaglie, e la guerra di liberazione trasformata in guerra civile, dove torti e ragioni si spartiscono equamente (ma con un progressivo prevalere dei torti della Resistenza…, e le foibe raccontate sono un meraviglioso aggancio in tal senso), sono i nuovi soggetti di una narrazione che alla fine può in modo «naturale» arrivare a cancellare il XXV Aprile obliterando il suo significato storico e la sua valenza civile, come cemento autentico della comunità nazionale. Serve dire: stiamo in guardia?