L’industria dei combustibili fossili sta sfruttando la pandemia per consolidare il proprio potere, accaparrandosi il denaro pubblico destinato alla ripresa e promuovendo false soluzioni alla crisi climatica, come il gas, che non fanno altro che aggravarla. A rivelarlo è il nuovo rapporto Trasformare la crisi in opportunità: lobby e grandi manovre dell’industria fossile durante la pandemia pubblicato da Re:Common, in collaborazione con la rete europea della società civile Fossil-Free Politics.

Analizzando le attività della lobby dei combustibili fossili, i ricercatori hanno identificato varie direzioni verso cui l’industria si sta muovendo. Una delle più rilevanti è mettere mano ai pacchetti di aiuti approntati durante l’emergenza. Attraverso il Pandemic Emergency Purchase Program, la BCE ha acquistato titoli di major come Eni, Snam, Shell e Total, aumentando la propria esposizione verso queste società. Ciò crea un legame molto pericoloso tra il comparto fossile e la banca, in quanto la capacità di quest’ultima di rientrare del proprio investimento dipenderà dalle performance finanziarie delle aziende in questione, su cui incidono anche le politiche europee sul clima.

In Italia, la gestione degli aiuti per la ripresa fa capo a Sace, società controllata dal ministero dell’Economia e tra i maggiori finanziatori del comparto fossile italiano. Nel 2019, il 34% delle sue operazioni sono state in favore di società del oil&gas. Sace è coinvolta in progetti controversi, come quelli relativi al gas in Mozambico e nell’Artico, o la centrale a carbone di Punta Catalina, nella Repubblica Dominicana. In quest’ultima partecipa anche Maire Tecnimont, colosso italiano della petrolchimica e tra coloro che hanno beneficiato del programma Garanzia Italia con un prestito da 365 milioni garantito da Sace.

L’industria fossile ha inoltre utilizzato la pandemia per sferrare un attacco alle normative in materia di clima e ambiente. La lobby BusinessEurope – di cui fanno parte anche BP, Exxon, Shell e Total – ha fatto pressione sulle istituzioni europee per ottenere deroghe legislative e la sospensione di tutte iniziative non direttamente legate alla crisi, inclusi elementi chiave del Green Deal come la Legge europea sul clima.
In Italia, Confindustria e Snam hanno spinto per la riduzione dei tempi delle VIA e processi autorizzativi agevolati per gasdotti e altre infrastrutture energetiche. Richieste accolte in toto dal Decreto Semplificazioni, entrato in vigore a settembre. Il decreto accontenta anche Enel, con una norma ad-hoc per facilitare la realizzazione di centrali a gas in sostituzione di quelle a carbone che dovranno essere spente entro il 2025. Tra aprile e luglio, Enel ha incontrato cinque volte il capo dell’ufficio legislativo del Mise, Enrico Esposito.

Ora l’attenzione delle lobby è tutta rivolta al Recovery Fund. Per mettere mano al tesoretto da 750 miliardi, l’industria è riuscita a insinuare false soluzioni come gas, idrogeno e progetti per la cattura della CO2 nell’agenda europea per la ripresa. Sebbene quest’ultima sia una tecnologia estremamente costosa e inaffidabile, il premier Conte ha lodato pubblicamente il progetto di Eni per fare di Ravenna il più grande centro al mondo per lo stoccaggio della CO2, già candidato a ricevere fondi europei. Di recente, il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha ricevuto le compagnie fossili italiane per discutere i progetti da inserire nella lista per il Recovery Fund. La posta in gioco è altissima: da un lato c’è la salute delle persone e del Pianeta, dall’altro gli interessi di chi si è arricchito inquinando e vuole continuare a farlo.

* Re:Common