Perché guardiamo gli animali? È la domanda che ci pone il libro (recentemente tradotto dal Saggiatore) in cui John Berger ha riunito i suoi scritti sul rapporto tra l’uomo e gli altri esseri viventi. Gli animali, osserva Berger, sono entrati nel nostro immaginario «come messaggeri e come promesse»; ma da quando abbiamo smesso di considerare la loro esistenza parallela e autonoma rispetto alla nostra, quella funzione originaria si è esaurita. La sottomissione degli animali ha spezzato il legame dualistico con l’uomo, alterando l’equilibrio tra venerazione e controllo.

Berger non è il solo scrittore che, negli ultimi anni, ha riflettuto sul valore della vita animale, in sé e come paradigma della relazione individuo/società: da Coetzee a Foer, il tema ha guadagnato una presenza crescente nella letteratura, divenendo anche oggetto di una corrente critico-teorica, gli Animal studies, già molto diffusa in ambito nordamericano. Anche nella letteratura italiana contemporanea ci sono esempi di questo genere: in Tozzi, Calvino, Volponi, Primo Levi, per limitarci ai classici novecenteschi (ma non mancano casi più recenti, da Laura Pugno a Giordano Meacci). A questi nomi si aggiunge quello di una delle maggiori scrittrici italiane del Novecento, Anna Maria Ortese: il tema del distacco tra uomo e natura attraversa specialmente le sue ultime opere (dal Cardillo addolorato a Alonso e i visionari e Corpo celeste), fino alla raccolta di interventi sul tema che esce ora a cura di Angela Borghesi: Le Piccole Persone In difesa degli animali e altri scritti (Adelphi, pp. 271, euro 14,00).

Il volume comprende trentasei pezzi, tredici dei quali già apparsi a stampa ma finora mai raccolti; i restanti, selezionati dalla curatrice tra i materiali del Fondo Ortese presso l’Archivio di Stato di Napoli, risultano inediti. Non datati, i testi sono perciò organizzati nel libro in base a un criterio tematico: la prima parte – chiarisce la Nota al testo – accoglie quelli «d’ampio respiro filosofico-naturalistico, di critica culturale e di costume, o di carattere documentaristico-memorialistico»; la seconda i testi «d’impronta militante», percorsi cioè da più accesi sentimenti animalistici.

Il rapporto di uno scrittore adulto con la «Natura», osserva Ortese nello scritto d’apertura (Ma anche una stella per me è «natura»), è segnato dallo scetticismo con cui l’uomo ripensa alle illusioni del bambino; ma senza la coscienza del distacco, senza la «memoria di una ferita ormai indimostrabile», non si può scrivere: perché la scrittura è «cercare ciò che manca». È una tensione quasi leopardiana (Leopardi è uno dei riferimenti impliciti ma più presenti sullo sfondo di questi scritti), quella che si precisa di brano in brano, passando da una prospettiva più lirica a una più storica (il doppio regime interessa anche lo stile, più concreto e diretto negli scritti ulteriori, specialmente in quelli della seconda parte).

La «malinconia», da effetto disforico, può rovesciarsi nell’avvertimento di una «normalità che ritorna», di un equilibrio ritrovato, nelle «città, di nuovo sane e pulite»; sarà la malinconia a dire «che la luna è tramontata da poco, e che inferno, furore, grandezza e immaturità, lusso e disperazione, furono solo un sogno» (Sulla malinconia). Ma i sentimenti non si appagano dell’idillio e del sogno; il rapporto con la natura e la sua rappresentazione delimitano infatti lo spazio privilegiato da cui guardare e giudicare la letteratura e la società italiane: «Nella narrativa non è mai presente il piccolo né l’interiore. È come se la vita italiana, dall’inizio della sua storia, fosse una lunga e barbarica tavolata, piena di cacciagione o vini pregiati, o anche semplici patate o rape, (…) ma, insomma, natura morta. Una immensa natura morta e niente più» (Piccolo e segreto).

Come altri scrittori italiani del secondo Novecento, Pasolini in particolare, Ortese osserva e interpreta i cambiamenti occorsi nella società, nel paesaggio materiale e morale dal dopoguerra, in chiave etologica: la violenza esercitata contro la natura e soprattutto contro gli animali è il riflesso dello «spirito che invase l’Italia tra il Cinquanta e il Settanta (…), uno spirito di volgarità, per prima cosa, e di perversità, come conseguenza». Così scrive in Ferocia e mollezza, due termini che definiscono emblematicamente lo scadimento dell’etica nazionale, specialmente il primo: di «immortale ferocia» parla infatti anche in Al rallentatore (viene da pensare alla fortuna recente che la parola, in una prospettiva non dissimile, ha conosciuto grazie al titolo dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia).

Anche «perversità» è parola ricorrente negli scritti di Piccole persone; Ortese la usa per spiegare la ragione che le fa apparire i delitti contro gli animali più gravi di quelli contro gli esseri umani: «il loro orrore» è «nella perversità» (Il secolo della crudeltà). È qui, in un confronto di questo genere, che si delinea il punto di vista dell’Ortese animalista, al centro, come si è detto, dei testi raccolti nella seconda parte del libro. I massacri degli animali corrispondono a quelli perpetrati dall’uomo contro i propri simili; la distruzione dell’habitat di altre specie è equiparata ai roghi dei villaggi nella «terribile guerra». L’idea che ognuno perseguiti i più deboli secondo la propria forza è autorizzata da grandi modelli, anche letterari: i capponi agitati da Renzo subiscono l’arbitrio e la violenza che, su altra scala, patiscono gli stessi protagonisti del romanzo.

Ma Anna Maria Ortese si spinge fin dove senso storico e morale consiglierebbero di non andare, proponendo l’equivalenza tra il dolore inflitto agli animali e quello subito dalle vittime del lager: tutto il male «che un certo stato europeo, venticinque anni fa, rivolse all’uomo, inflisse all’uomo europeo: deportazioni, viaggi nei vagoni piombati, inumano isolamento», adesso è inflitto agli animali, in Italia e in altri paesi (Il criminale prudente). «Provate ad andare in Lager…»: così Primo Levi, che pure ha riflettuto sulla sofferenza inflitta agli animali in Contro il dolore, rispondeva quando le sue Storie naturali venivano lette come adattamenti fantastici della Shoah.

Ortese prevede lo scandalo delle sue parole, anticipa le obiezioni, denuncia il ricatto morale; ma le sue posizioni, «certo discutibili, ingrate e radicali» scrive Angela Borghesi nel fine e partecipe saggio conclusivo «la consegnano all’isolamento, all’incomprensione dei più». Tuttavia certe espressioni – spiega ancora Borghesi – sono il prodotto di «un cumulo d’anni di rabbie gridate o represse, d’impegno misconosciuto, di scrittura ossessiva».

«Ossessione» è la parola che meglio definisce, in due sensi, gli scritti della seconda parte del libro. Da una parte, l’ossessione dell’autrice per i suoi argomenti (molti dei quali sacrosanti: contro la caccia, per esempio, e contro il folklore cruento della corrida, che nessun valore simbolico basta a riscattare). Dall’altra parte, l’ossessione suscitata nel lettore, che di pagina in pagina sempre più si sente tratto nell’inferno degli animali. Al netto delle critiche (anche sull’ambiguità di certe idealizzazioni: «La vita è buona. Alberi e bestie sono buone», un «cane è un angelo»: Una sentenza della Corte di Cassazione), perciò, Piccole persone è un libro che impressiona e che ammonisce al rispetto verso coloro con cui condividiamo una dimora, l’Umwelt, in senso biologico e sociale.