La criminologia critica ha fornito due strumenti cruciali per la comprensione dei fenomeni criminali; il primo attiene alla costruzione sociale: se da un lato esiste un fenomeno, dall’altro lato, sono i rapporti di forza all’interno della società a definirlo criminale. Ad esempio, fino al 1982, si negava l’esistenza della criminalità organizzata, mentre oggi ci troviamo di fronte a un fiorire di inchieste, studi, associazioni che ne danno per scontata l’esistenza.
Il secondo insegnamento, riguarda il processo di definizione di un fenomeno come «criminale». A partire dal momento in cui un individuo o un’organizzazione vengono definiti mafiosi, si innesca una dinamica di alterizzazione; la criminalità organizzata viene presentata come un fenomeno esterno, altro dal normale e regolare fluire delle dinamiche umane.

DEFINENDO un fenomeno sociale sull’onda della rappresentazione comune, si rischia di focalizzare i bersagli sbagliati, di eludere le questioni più complesse, di promuovere soluzioni che, invece di risolvere o limitare il problema, rischiano di riproporlo o di riprodurlo in altri contesti e sotto altri termini. Il libro di Giuseppe Pignatone e di Michele Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi (Laterza, pp. 240, euro 20), presenta questi limiti. Da un lato, il lavoro in oggetto si avvale della competenza pluriennale dei due magistrati, impegnati sul fronte delle indagini dei fenomeni mafiosi in contesti diversi. Questo fa sì che il libro si riveli una preziosa fonte di informazione sia per gli addetti ai lavori, sia per chi si approccia per la prima volta allo studio delle mafie. Le origini delle principali organizzazioni criminali italiane, le loro trasformazioni storiche, i rapporti con la politica e l’economia, le misure di contrasto e di prevenzione, vengono sviscerate con sufficiente accuratezza e puntualità. Dall’altro lato, però, gli autori, non riescono a mettere a frutto la ricchezza del materiale che porgono al lettore, finendo per riproporre alcuni dei luoghi comuni dominanti nella rappresentazione dei fenomeni mafiosi.
In primo luogo, i due autori si soffermano molto sull’aspetto culturale, tentando di demistificare le appartenenze religiose, la costruzione dell’identità mafiosa, i giuramenti e altri aspetti. La loro analisi mira a mettere in luce la strumentalità di tutti questi aspetti, ma lo fa utilizzando categorie che puntano a inquadrare i malavitosi come una specie primordiale, estranea al consesso civile.

NON SEMBRA il percorso più adatto da seguire se si desidera intraprendere un’analisi critica delle mafie. I rituali di affiliazione, l’appartenenza alle confraternite, riguardano anche membri della borghesia (si pensi alla massoneria, alle societies americane), così come l’appartenenza religiosa: George W. Bush si vanta di essere un buon cristiano, ma questo non gli ha impedito di ordinare uccisioni e devastazioni in Medio Oriente. Perché per i mafiosi la ritualità deve pesare di più?
In secondo luogo, Pignatone e Prestipino insistono sul concetto della colonizzazione, secondo il quale le mafie, in quanto fenomeno esterno alla società, le aggrediscono, piegando la politica e l’economia, in origine sane, ai loro desiderata. Questo approccio medico alla questione mafiosa è stato ampiamente smentito dai fatti. Le organizzazioni criminali, infatti, si pongono spesso e volentieri come attori complementari rispetto al potere politico e a quello economico: lo dimostrano l’importanza della mafia americana nella regolamentazione del mercato del lavoro, il ruolo di garante degli assetti politici in chiave anti-comunista svolto da Cosa Nostra in Sicilia fino al 1989, lo smaltimento dei rifiuti svolto dalla camorra per conto delle imprese del Nord. Le inchieste citate dagli autori stessi, mostrano che gli imprenditori settentrionali spesso e volentieri si servono della criminalità organizzata per acquisire vantaggi competitivi, o per risollevare le loro aziende in crisi tramite il riciclaggio.

DI CONSEGUENZA, e questo è il terzo punto, non bisogna parlare di zona grigia o di mondo di mezzo tra legale e illegale. Siamo in presenza di una vera e propria cointeressenza tra le mafie e quella che una volta si sarebbe chiamata la borghesia, dal momento che il mercato è unico, e che dei soldi immessi dal riciclaggio beneficiano tutti gli attori economici (la City di Londra, senza i soldi della criminalità organizzata, uscirebbe ridimensionata), e che la mediazione elettorale mafiosa è da molto tempo parte strutturale della politica, e non soltanto in Italia. Infine, una riflessione in merito alle politiche di contrasto. La confisca dei beni, per quanto importante, rischia di non riuscire ad afferrare la questione del riciclaggio e degli investimenti catalizzati dalla globalizzazione. Allo stesso tempo, bisognerebbe avviare una discussione sull’importanza dell’anti-proibizionismo. Probabilmente, togliere alle organizzazioni criminali questa ingente fonte di guadagno, sarebbe decisivo per il loro contrasto.