Pedro Almodóvar è da considerare tra i più grandi cineasti del nostro tempo. Attivo da una quarantina di anni ha saputo regalarci emozioni indimenticabili, dalle trasgressioni postfranchiste degli esordi, ai fuochi d’artificio di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, a Tutto su mia madre. Ci sono stati anche momenti meno riusciti, pochi, ma ora torna alla grande con un melodramma ricco di risvolti e implicazioni, umane, morali e storiche: Madres paralelas, che ha consentito a Penélope Cruz di ottenere la Coppa Volpi come migliore attrice alla recente Mostra di Venezia.

La vicenda principale è legata a due figure femminili. Janis è una donna single, matura, fotografa di successo che si scopre incinta un po’ per caso, ma tutto sommato non è dispiaciuta della cosa, forse onda lunga di una madre hippy e tossica che l’ha chiamata così per omaggiare Janis Joplin e che le permette di vivere questa nuova prospettiva senza particolari angosce. L’altra è Ana, adolescente, intimidita dalla vita, che nulla racconta di come sia arrivata a rimanere incinta, con una madre attrice più orientata verso la sua carriera che non a prestare attenzione alla figlia.

LE DUE SI INCONTRANO in ospedale nel reparto maternità dove danno alla luce i loro pargoli a breve distanza di tempo. Si perdono di vista e noi seguiamo prima Janis, con il padre della bimba, sposato, spaventato e restio a riconoscere in quella bimba qualcosa di sé. Anche un’amica di Janis le fa notare quanto sia «etnica» quella bimba che sembra india. Del resto in famiglia si parlava di ascendenze latinoamericane. E sono così già affiorati i temi portanti che Pedro allestisce per una storia dai risvolti intriganti nella loro concatenazione che tutto lega e assembla, perché le due donne si incontrano di nuovo a distanza di tempo. Poi, oltre a quell’accenno indiretto sul colonialismo spagnolo, c’è un sotto testo legato ai morti ammazzati dai franchisti durante la guerra civile, sepolti in fosse comuni nascoste, e volutamente dimenticate.

Per paura, durante la dittatura, per complicazioni, dopo la ritrovata libertà e per mancanza di volontà condivisa nel fare i conti con la propria storia, nonostante qualche legge rimasta peraltro piuttosto inerte. E a questo proposito c’è il confronto indispensabile verso i più giovani che non sanno, e questo è comprensibile, ma soprattutto sembra non vogliano sapere, e questo è colpevole. Come il rifiorire di una destra fascista.

Anche la grande madre Spagna ha le sue grosse contraddizioni. Pedro questa volta rifugge dal vissuto personale, infatti ha definito le donne del film come «madri imperfette, vivono periodi e situazioni complesse da risolvere. Le figure femminili che mi hanno educato erano invece quelle di madri onnipotenti» dice. Questa distanziazione non gli impedisce però di sottolineare con maestria molti temi che da sempre lo appassionano. Certo, la predilezione per le figure femminili, meglio se materne, che prendono il sopravvento nei confronti di un universo maschile balbettante nel migliore dei casi, prevaricatore nel peggiore. Poi c’è l’infinità tenerezza della maternità, anche quando si mostra in modo imperfetto, perché c’è una moralità specifica che tiene sempre connessi, forse quel Dna, che inoltre lega anche quei morti sepolti e nascosti a quelli che sono venuti dopo. Anche indirettamente perché l’uomo con cui Janis concepisce è un avvocato forense chiamato proprio per cercare di trovare una soluzione che possa risarcire moralmente quei poveri morti della guerra civile e i loro famigliari.

C’È POI IN PEDRO una facilità narrativa che appartiene solo al grande talento. Basti vedere una scena quasi banale su come vengono preparate le patate in cucina mentre la storia procede, oppure come quella piazzetta madrilena sotto casa possa diventare un teatrino all’aperto per nuovi incontri e nuovi sviluppi narrativi, o ancora come riesca trovare spazio e coerenza per citare Garcia Lorca, fucilato e gettato come quei morti del paese.

Ci sono tanti e diversi sapori che impreziosiscono questa nuova proposta di Pedro Almodóvar, capace di ritrovare una verve e una vitalità da grande autore, uno di quelli che sa parlare e emozionare il pubblico come pochi.