Al dibattito sul futuro dell’Ilva che ha caratterizzato le ultime settimane è mancato un punto di vista fondamentale, quello di Alessandro Leogrande, il giornalista e scrittore tarantino morto a quarant’anni nell’autunno del 2017. Leogrande avrebbe potuto aiutare a mettere ordine nel caos delle accuse di Luigi Di Maio a Carlo Calenda, e a rispondere agli elettori dei 5 stelle che oggi si sentono traditi dall’accordo con Arcelor Mittal: è chiaro leggendo Dalle macerie, un’antologia che raccoglie vent’anni di articoli che il vice-direttore dello Straniero ha dedicato alla sua città (Feltrinelli, 17 euro).

L’importanza di questi scritti è la profondità con cui racconta una grande città del Sud Italia – Taranto è arrivata a circa 240 mila abitanti, spinta dalla crescita del polo siderurgico più grande d’Europa – e ne analizza dagli anni Novanta le trasformazioni economiche, politiche e sociali, senza pregiudiziali ideologiche. Perché Taranto non è solo Ilva, e se i media fanno un racconto monotematico, forse il problema è dell’informazione.

Leggendo Leogrande è invece possibile comprendere il timore di una nuova crisi di disoccupazione, legata alla eventuale chiusura dell’impianto (quella promessa in una campagna elettorale che lui non ha vissuto dai 5 Stelle): in un territorio povero di iniziativa imprenditoriale, e incapace di sviluppare un indotto, senza lo stabilimento Ilva ci sarebbe un disastro. Come quando negli anni Novanta lo Stato cedette l’Italsider ai Riva: la ex città più ricca del meridione, per reddito pro-capite, era stretta in una morsa di disagio, figlia della mancanza di lavoro, e in quel contesto emerse il fenomeno del “citismo”, cioè il movimento nato intorno a Gianfranco Cito e alla sua tv privata, Antenna Taranto 6: l’ex picchiatore fascista Cito divenne sindaco e guida egemone della città (dal ’93 al ’96).
Leogrande cita Pasolini, che scrisse: «Taranto è una città perfetta. Viverci è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari». Era il 1959, prima che venisse costruito il polo siderurgico. Pur amando la città in cui era nato, e dalla quale mai aveva spostato la residenza, pur vivendo a Roma, Leogrande non la idealizza nei suoi scritti. Scava in profondità gli errori e i limiti, fa il vero reporter (straordinario il ritratto di Mimmo De Cosmo, delfino di Cito, sindaco di Taranto dal ’95 al ’99, intervistato nel suo negozio di rigattiere), dà voce a chi vive nel centro storico dimenticato ed abbandonato e nei quartieri dormitorio. È forse per questa capacità di leggere e restituire tutta la complessità di Taranto, la città in cui ha iniziato a scrivere, a manifestare, a far politica negli anni del Liceo, che Leogrande – dopo che è scoppiato il bubbone dei rischi ambientali legato all’assenza di controlli adeguati e forme di prevenzione dell’inquinamento – non abbraccia mai la posizione di chi chiede di chiudere la fabbrica.
In un articolo programmatico uscito nel giugno del 2013 proprio sul manifesto, Leogrande parla dei due fallimenti (quello pubblico, prima, è quello dei Riva, poi) e traccia per punti il suo pensiero: «Non si può accusare chi solleva la drammatica questione ambientale di favorire la deindustrializzazione e la disoccupazione. Allo stesso tempo, non si può accusare chi vuole difendere i posti di lavoro. Si può uscire da questa lotta tra opposti estremismi chiedendo, pretendendo e realizzando la trasformazione radicale degli impianti, la trasformazione radicale dei rapporti di lavoro interni alla fabbrica, la trasformazione radicale del rapporto tra fabbrica e città». Meno di un anno prima, dalle pagine del Corriere del Mezzogiorno Leogrande aveva attaccato Asor Rosa, che sul manifesto aveva scritto di una (presunta) «strana alleanza» tra operai e padroni. «Vista da grande distanza – scrive – l’esplosione della “questione Taranto” può apparire di difficile lettura». Non solo e non tanto un atto d’accusa, ma l’invito a non usare categorie predefinite, per leggere una città a rischio implosione. È consapevole, Leogrande, che a Taranto si muore d’Ilva. E lo sa perché accompagna anche suo padre, alle sedute di chemioterapia. Ma questo non è sufficiente a fargli perdere di vista l’insieme.