Le parole, nella politica italiana, sono piume. Però la promessa della destra di restare compatta dalla prima all’ultima votazione presidenziale è troppo recente perché il contrasto con la realtà dei fatti non sia stridente.

Non solo l’impegno a non dividersi nel voto ma la stessa coalizione sono crollati in pochi giorni.

«Il centrodestra esiste ancora nel Paese ma come parlamentari non esiste più. Bisogna ricominciare daccapo», ammette Giorgia Meloni spiegando il suo no a quella rielezione di Mattarella che l’alleata presidente dei senatori di Fi Bernini definisce invece «non la sconfitta ma il riscatto della politica».

Due voti distinti, tre posizioni diverse. Se infatti per sorella Giorgia quella rielezione è un vituperio, e il suo partito vota infatti Nordio, mentre per Fi è un trionfo, la posizione dello sconfittissimo Salvini è una via di mezzo: più che contento è rassegnato. Si è deciso a dare il semaforo verde solo ieri mattina, dopo il doppio disastro del massacro Casellati e dell’incresciosa gaffe Belloni. Del resto Meloni, impegnata a sgomitare per trovare visibilità, si era già autonomizzata dalla terza votazione, con il voto su Crosetto che disobbediva agli ordini di scuderia. Forza Italia si è ripresa la sua libertà in extremis, venerdì sera, dopo l’incidente Belloni: «D’ora in poi trattiamo da soli». In quel momento sembrava ancora che ci fosse un barlume di speranza per Casini.

L’illusione è durata lo spazio di un’alba e a Fi è mancato il tempo per «trattare da sola». Gli stracci sono volati più volte: dopo la sorpresa Crosetto, con Salvini furibondo. Botta e risposta: il giorno dopo è toccato a Giorgia schiumare rabbia per la decisione degli alleati di astenersi senza ritirare la scheda, fatta apposta per sottrarle la scena in vista di un nuovo show Crosetto.

Le botte da orbi sono arrivate dopo l’impietoso tracollo Casellati. Meloni, furibonda, è arrivata al confine della minaccia di sfratto rivolta a forzisti e centristi, accusati di aver cecchinato in segreto la presidente del Senato. Toti le ha risposto a brutto muso che «le alleanze non sono matrimoni, si possono sciogliere».

La leader di FdI, almeno, può contare sulla disciplinata obbedienza del suo partito. Salvini invece la guerra rischia di ritrovarsela in casa. Ieri, per alcune ore, a far tremare gli appena tranquillizzati parlamentari sono state alcune parole misteriose lasciate cadere da Giorgetti, il numero due della Lega e, a differenza del capo, draghiano convinto: «Per qualcuno il voto di oggi porta al Colle, per me porta a casa».

Sarà mica un sibillino annuncio di dimissioni imminenti? Il ministro conferma: «È un’ipotesi, magari c’è da migliorare la squadra». Poi si sfoga prendendosela con la mancata valorizzazione dell’azione del governo stesso e del suo ministero da parte del Carroccio.

Sembra una resa. È un’offensiva.

La battaglia del Colle si è conclusa con la vittoria piena dei draghiani in ogni partito e il principale draghiano del Carroccio presenta il conto: gli attacchi della Lega di lotta e di governo devono finire. Non bisogna però pensare a un affondo contro Salvini, che non sarebbe nella personalità politica di Giorgetti, uno che quanto a senso del partito non avrebbe sfigurato nei rigidi partiti comunisti del passato.

Nel mirino del ministro dello Sviluppo c’è casomai la cerchia più vicina al leader e c’è l’intenzione di forzare la mano a Salvini per bloccare in anticipo eventuali tentazioni centrifughe. Infatti poco dopo tutto sembra rientrare. Di dimissioni non si parla più e si passa invece alla «esigenza di una nuova fase del governo», della quale lui e Salvini discuteranno con Draghi in un incontro chiesto dai leghisti e che potrebbe svolgersi lunedì. È possibile che Salvini abbia ancora in mente il rimpasto, che comunque il premier non ha alcuna intenzione di concedere.

In ogni caso Giorgetti ha segnato, con la dovuta discrezione, un limite preciso per le polemiche contro il governo.

La bomba a più alto potenziale esplosivo però non è il governo. È la legge elettorale. Se Meloni aveva tanta fretta di votare non era tanto per capitalizzare subito i consensi ma per non dare alla maggioranza il tempo di varare una legge proporzionale che penalizzerebbe il suo partito.

Salvini glissa, se la cava con un «Non è una priorità» da manuale. Ma il nodo prima o poi andrà sciolto. Anche perché non c’è legge elettorale che possa tenere insieme una coalizione che nell’ultima settimana ha dimostrato ampiamente di non esistere.