Venezia, 30 luglio 2019. Addizione e sottrazione, positivo e negativo: intorno a questa formula Dilara Begum Jolly (Chittagong 1960, vive e lavora a Chattogram) – conosciuta come Jolly – ha incentrato il nucleo di opere che sta realizzando a Venezia. Insieme al marito Dhali Al Mamoon, noto artista e docente alla University of Chittagong, Jolly è stata invitata a partecipare alla I edizione della Majhi International Art Residency, ideata da Durjoy Rahman (fra i più importanti collezionisti d’arte contemporanea del Bangladesh e fondatore della Durjoy Bangladesh Foundation) insieme a Uttam Kumar Karmaker (presente anche nel padiglione del Bangladesh alla 58. Biennale d’arte di Venezia), Rajaul Islam Lovelu, Noor Ahmed Gelal, Kamruzzaman Shadhin, Umut Yasat, David Dalla Venezia, Cosima Montavoci, Andrea Morucchio e Chiara Tubia.

Nella stanza di Combo, ex convento dei Crociferi, condivisa con il marito, l’artista lavora con passione e rigore intervenendo sui ritratti fotografici di figure femminili del passato e della contemporaneità, inossidabili esempi di resilienza. Volti anonimi e conosciuti si alternano sulla superficie bidimensionale della stampa in bianco e nero. Le immagini d’archivio ci ricordano come venivano punite in occidente, dal medioevo al XIX secolo, coloro che disobbedivano al potere precostituito: Jolly interviene sui volti femminili costretti nelle maschere di tortura – le cosiddette “macchine d’infamia” – punzecchiando con l’ago la superficie, creando così una fitta trama di piccoli fori. Un processo che serve per illuminare la memoria, ma anche un possibile respiro all’interno di una rappresentazione buia.

Analogamente procede aggiungendo applicazioni e lustrini, tradizionalmente impiegati nella sua cultura per decorare gli indumenti, per glorificare quattro grandi donne bengalesi del Novecento: Begum Sufia Kamal, poeta e attivista politica; Begum Rokeya, scrittrice e avvocata per i diritti delle donne; Novera Ahmed, scultrice e Kakon Bibi (Noorjahan Kakon Bibi Bir Protik), combattente per la libertà del Bangladesh nella guerra di liberazione del 1971. Fin da quando era studentessa di pittura al College di Chittagong e poi all’Institute of Fine Arts della University of Dhaka (con un post diploma in stampa conseguito nella prestigiosa Kala Bhavana, Visva Bharati University di Santiniketan, fondata in India da Tagore) Dilara Begum Jolly, vincitrice nel 2002 del Bengal Foundation Award, si è sempre occupata di questioni di genere, esplorandone i molteplici aspetti all’interno della società bengalese ancora tenacemente patriarcale, attraverso diversi media che spaziano dalla pittura all’installazione alla scultura e dalla fotografia a performance e video.

Della vita delle donne, tra discriminazioni, soprusi e violenze, parlano anche quei feti di bambini mai nati presenti nei suoi coloratissimi dipinti dalla declinazione surreale della serie Embryo withdrawn (2009), ma è soprattutto la disastrosa condizione delle lavoratrici ad essere per l’artista argomento di denuncia, come nel video Tazreen Nama (2013) sull’incendio della fabbrica tessile Tazreen Fashion, nella periferia di Dhaka, il 24 novembre 2012, in cui persero la vita centinaia di persone e del crollo del complesso manifatturiero Rana Plaza, a Savar (Dhaka), il 24 aprile 2013, a cui è dedicato l’intero corpus di opere realizzate per la personale Threads of Testimony (2014) alla Bengal Art Lounge.

Sulla memoria collettiva è incentrato anche il suo lavoro più recente Torture Cell (2017-2018) che si focalizza sui traumi post-bellici. Le immagini fotografiche al negativo raccontano il luogo di tortura Dalim Hotel, a Chattogram, conosciuto come la “fabbrica della morte”, in cui il criminale di guerra Mir Quasem Ali e i suoi scagnozzi torturavano i combattenti per la libertà durante la guerra di liberazione dal Pakistan.

Dilara Begum Jolly lascia affiorare le tracce del trauma ascoltando le storie degli attuali abitanti dell’edificio, il cui terrore si rinnova come un incubo attraverso le macchie di sangue delle vittime di cui sono impregnate le pareti dell’edificio. Poi, munita di ago, si confronta pazientemente con il dolore – punto dopo punto, foro dopo foro – in una ripetizione del gesto che è meditativa quanto salvifica.

Alla tradizione femminile del cucito e del ricamo si riferisce l’utilizzo dell’ago con cui perfori disegni, stampe e fotografie. La citazione più diretta è quella della nakshi kantha, la trapunta che le donne bengalesi e indiane del Bengala Occidentale realizzano ricamando e cucendo insieme anche i loro sari usati. Che libertà, in termine di possibilità, ha dato al tuo lavoro ricorrere a queste tecniche che mettono in discussione l’estetica patriarcale?

Molti dei miei primi lavori erano collegati al concetto della nakshi kantha perché volevo riferirmi in maniera più diretta alla storia delle donne, alla loro esistenza nel quotidiano e alla tradizione della nostra cultura. E’ stato un mezzo per rafforzare l’identità del sé. Per realizzare queste trapunte ci vogliono molto tempo e molta concentrazione. Apparentemente potrebbe sembrare un lavoro noioso, in realtà è uno spazio meditativo. Nel realizzare le mie opere il mio approccio è stato come quello delle donne che cuciono nakshi kantha.

Il corpo delle donne, spesso frammentato, è il soggetto centrale delle tue opere – un corpo narrativo – come pure i fiori che, ad esempio in After the end of the time – 3 (2006), hanno proiettili al posto dei pistilli. Nel raccontare storie drammatiche come quella di Nurjahan, vittima della fatwa per adulterio o quelle di tutte le lavoratrici vittime sul lavoro c’è anche la volontà di scardinare tabù e pregiudizi?

In un’estetica dominata dall’uomo cerco effettivamente di sfidare tabù e pregiudizi. L’ho fatto fin dalle mie prime opere che erano ispirate al romanzo Lalsalu dello scrittore Syed Waliullah che ha raccontato come le donne, nella società patriarcale, fossero represse anche dalla religione. Ma, dopo una residenza in Brasile, nel 2004-2005, ho riconsiderato il corpo della donna mettendolo in relazione a questioni politiche in una visione più ampia di essere umano.

Hai parlato di religione, pensi che in generale sia un ostacolo all’emancipazione delle donne?

Sì!

Nel video We (2016) la componente performativa, insieme al suono, contribuisce a sottolineare una certa drammaticità. Che significato ha la presenza del tuo corpo?

In questo video ho affrontato il tema della violenza domestica. Mi aveva colpito molto la storia di Rumana Manzur, docente alla University of Dhaka accecata dal marito che non voleva che continuasse il master che stava facendo con il programma Fulbright alla University of British Columbia di Vancouver. Nel video ho voluto percepire attraverso il mio corpo i suoi sentimenti, il suo dolore. Il corpo, quindi, come strumento per capire i sentimenti.

Ti sei mai dovuta confrontare con la censura?

No, ufficialmente non ci ho mai avuto a che fare. E’ qualcosa di più nascosto è un’auto censura… (ride).

Nel tuo percorso di artista, in che modo la figura di tua madre – Halima Khatun – insegnante che ha cresciuto cinque figlie femmine è stata esemplare e d’ispirazione?

Cinque figlie e tre figli… otto in tutto! (ride) Mia madre era anche un’attivista per i diritti delle donne e a noi figlie ci ha sempre spronate a studiare a cercare la nostra strada perché fossimo autonome. Era anche una tessitrice molto brava, come pure mia nonna Kudaz che viveva con noi a Chittagong.

L’altro mentore è tuo marito Dhali Al Mamoon. Come riesci a conciliare il ruolo di artista e moglie di un altro artista?

Ci siamo conosciuti oltre quarant’anni fa alla scuola d’arte a Chittagong. Siamo legalmente sposati da 32 anni, ma prima ci siamo frequentati per una decina d’anni. Non ci siamo mai considerati marito e moglie secondo il concetto tradizionale di famiglia. Ci consideriamo prima di tutto amici. E’ un grande vantaggio per me poter condividere le mie idee con lui. Non avendo figli abbiamo meno responsabilità e maggiore complicità. Non siamo molto sociali, ma abbiamo alcuni amici stretti come Milon Chowdhury e Shahaduz Zaman con cui, quando ci vediamo, possiamo trascorrere intere serate a parlare, parlare, parlare.