All’inizio ci sono le mani. E le dita, cinque, come i capitoli che scandiscono i film. Poi c’è la pellicola, le mani la toccano, è «il fare», l’artigianato, una materia «fisica» all’opposto della volatilità digitale. «Noi siamo sempre dalla parte delle bombe» dice la voce bassa e roca di Godard. Di un Terrorism considered one of the fine Arts (Peter Whitehead da Thomas de Quincey) – quello che non confonde lingua con linguaggio, che smaschera la manipolazione del potere, che è resistenza e ricerca del reale nella sua messinscena. Le livre d’image è il titolo il nuovo film di Jean-Luc Godard, presentato ieri in concorso alla presenza dell’equipe, il regista non sarà nemmeno stavolta sulla Croisette, la stessa dove cinquant’anni sull’onda del Maggio francese, insieme agli altri registi nouvelle vague aveva fermato il festival in solidarietà con le lotte e le barricate. Presenza/assenza la sua, evocato molto nelle «celebrazioni» del 68, e nel bacio appassionato tra Anna Karina e Belmondo (Il bandito delle 11) che è divenuto l’immagine del festival si collegherà in conferenza stampa oggi via FaceTime. C’è però la sua voce nel film, sonora e interiore, l’ascoltiamo continuamente in questa lunga Histoire (s) du cinéma che dentro alle immagini (al «Libro dell’immagine») traccia la linea della Storia. «Ti ricordi ancora come nascevano i nostri pensieri? Il più sovente cominciavano con un sogno…».

Cosa è dunque Le livre d’image a parte la prova che JLG continua a essere il più giovane dei cineasti e il più «politico» e senza proclami né frasi stereotipate, «topic» e lacrima di circostanza, ti fa commuovere davanti alle ombre incerte di un Ophuls mentre (ci) grida con la voce sempre più affaticata che non si smette di sperare, che non si rinuncia all’utopia?

L’altro ieri sul sito di «Lundi Matin» è apparso un cortometraggio Vento dell’Ovest, in sostegno di Notre Dame des Land, la Zad, la comunità agricola e ambientalista sgombrata con violenza dal governo Macron qualche settimana fa, attribuito a Godard. Ieri l’addetto stampa del regista ha smentito dicendo che Vento dell’Ovest non è del regista, è un fake costruito seguendo lo «schema» dei suoi film (a cominciare dal titolo, gioco con Vento dell’est). La vicenda è comunque interessante perché Le livre d’image è un po’ questo, come l’intera riflessione godardiana, specie negli ultimi film, la ricerca cioè di quel «passaporto verso il reale» attraverso le immagini che solo lì, nella distanza della narrazione permettono di cogliere quanto rimane – quanto è possibile – della realtà.

Le livre d’image è perciò un grande film-saggio sul nostro mondo, sul nostro presente di stradine del Suquet a Cannes pattugliate dai soldati che per un attimo, forse sarà l’emozione godardiana, ti sembra di finire diritto in La battaglia d’Algeri (censurato in Francia fino a pochi anni fa); è l’Histoire(s) du cinéma che rivela la Storia. Dal «Remake», ovvero la storia che si ripete,l’umanità che si distrugge, i crimini di stato, la guerra che è ovunque al «Paradiso perduto», l’ultimo capitolo, il più lungo, quel mondo arabo «felice» che nello sguardo occidentale – e nella sua parola – non trova alcuna rappresentazione fuori dall’’Islam. L’immaginario, il cinema, l’arte, la poesia diviene il materiale – e lo spazio – con cui Godard ripercorre la parabola dell’umanità nei passi falsi, nelle variazioni, tra somiglianze e fratture.

Le immagini ci interrogano, rivelano, parlano. Tra i fotogrammi di Carmelo Bene, Straub (quasi un omaggio al suo vicino di casa a Rolle, in Svizzera dove Godard vive ormai da anni), Nacer Khemir, appaiono quelle girate con i cellulari, le immagini che circolano in rete, le immagini che vogliono «testimoniare», affermare la verità di guerra, di morte, l’Isis, le bombe, gli attentati ma: «C’è voluta l’eternità per raccontare la storia di un giorno». E l’arte non può ridursi solo a «telecamera di sorveglianza». Sono queste allora le dita della mano? Capitalismo e «Soirée a San Pietroburgo», non c’è più nessun Palazzo d’Inverno. Ci sono sempre però i molto ricchi che accusano i molto poveri di rovinare il mondo: Region Central. È troppo semplice? No, è solo una questione di sguardo.

Perché è quanto determina il discorso dell’immagine, la sua «verità», lo spazio del racconto che non pretende l’oggettività ma anzi rivendica la sua natura soggettiva. La presa di posizione resistente contro i dogmi che strumentalizzano il terrore. Albert Cossery era uno scrittore egiziano che viveva a Parigi. In un suo libro, l’unico non ambientato in Egitto, Une ambition dans le desert (1984) parla del primo ministro di un paese inventato nel Golfo persico, Dofa, che organizza una serie di attentati per far credere che è in atto un processo di destabilizzazione, quando invece il suo obiettivo è espandere il potere del proprio Paese.

Nel magma delle guerre in diretta, delle «fake news», della certezza senza verifiche l’immagine è un terreno di battaglia, è dove tutto può essere con il suo contrario. È quanto necessita accompagnamento, il racconto, il «romanzo», l’assunzione di una parola che non la pieghi però, di un gesto delle mani. Quando grida, in questo film forse più intimo, quasi una lezione morale, semplice, diretta, col sentimento di una vita d’artista messa a nudo, Godard per qualche minuto «spegne» lo schermo. La realtà dell’utopia è ancora da immaginare.