Negli ultimi decenni del secolo scorso, la prospettiva «relativista» sul linguaggio, convenzionalmente chiamata «ipotesi Sapir-Whorf», era caduta in discredito: l’idea che con il variare delle lingue e delle culture muti anche il modo in cui le comunità umane organizzano l’esperienza conosce tuttavia oggi un rinnovato interesse, tanto che Bollati Boringhieri ha deciso di ripubblicare il volume di Benjamin L. Whorf Linguaggio, pensiero e realtà (pp. 250, € 17,50), quarant’anni dopo la sua uscita in Italia. Morto precocemente, Whorf non fece in tempo a mettere a punto il libro, che aveva progettato come un manuale universitario. Il curatore del volume decise così di comporlo con scritti editi e inediti: studi sulla lingua dei nativi americani, soprattutto quella degli hopi, della cui analisi Whorf fu un pioniere, ma anche saggi di linguistica generale e articoli più divulgativi in cui l’autore prova a illustrare il rapporto tra pensiero, linguaggio e comportamento.
Malgrado l’eterogeneità del materiale che lo compone, il volume ruota attorno a un’idea centrale, ovvero che la nostra esperienza del mondo è strutturata e pensata linguisticamente. Dunque, la variazione delle lingue porterebbe con sé un mutamento della concezione di realtà e dei comportamenti che vi si realizzano.

Whorf formula così il suo principio di relatività linguistica: due uomini «non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell’universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati». In altre parole, il linguaggio produce una visione del mondo che muta al variare delle lingue. Questa differenza di Weltanschauung è tanto più evidente quanto più sono lontani gli idiomi che si mettono a confronto. Può addirittura sfuggire se si rimane nell’alveo delle lingue indoeuropee. Se però si comparano queste ultime con le lingue dei nativi americani, sostiene Whorf, le cose cambiano radicalmente.

Il linguista americano si concentra soprattutto sui concetti di tempo, spazio e materia. Per via della struttura soggetto-predicato delle lingue indoeuropee e della presenza dei tempi passato, presente e futuro, noi occidentali siamo inclini a concepire la realtà in termini di cose e di azioni e relazioni tra esse, che avvengono in uno spazio e in un tempo definiti. Ma sarebbe un errore pretendere per questa struttura una validità universale. Pur essendo la percezione sensibile dei corpi nello spazio «data» per tutti «sostanzialmente nella stessa forma, qualunque sia la lingua» che parliamo, non dobbiamo ignorare l’esistenza di idiomi che organizzano quell’esperienza sensibile in modo radicalmente diverso dal nostro.

La nozione di tempo, per esempio, è variabile: in hopi non si possono utilizzare i numeri cardinali in riferimento ai giorni, ma solo gli ordinali. Si può dire «il terzo giorno» ma non «tre giorni». Il tempo è quindi sempre riferito alla prospettiva di un soggetto o in relazione a un evento e per gli hopi è inconcepibile l’idea di una temporalità astratta e vuota, fatta di unità discrete (giorni, mesi, anni) ripetute all’infinito.
Secondo Whorf è addirittura la nozione di verbo a venire fortemente indebolita se si tiene presente come in alcune lingue, per esempio lo yana, qualunque parola possa essere resa verbo «tramite l’applicazione di certi suffissi distintivi». Sarebbe quindi più corretto parlare di «verbazione». In questa goccia di grammatica si nasconde una grande differenza di prospettiva rispetto a noi europei: emerge infatti una visione che privilega gli eventi, ognuno dei quali è esito di un processo, a discapito delle cose. Ma pur essendo il perno intorno a cui ruota tutto il volume, il relativismo linguistico è solo una faccia della medaglia: man mano che ci si avvicina alle pagine finali emerge infatti un’idea opposta.

Secondo Whorf la linguistica, pur non essendo una scienza quantitativa, sarebbe tuttavia esatta, proprio come la matematica e la fisica, e attraverso di essa si potrebbero scoprire leggi e strutture generalissime che regolano il pensiero e il linguaggio, come per esempio alcune formule, ideate dall’autore, che descrivono le regole generali per la formazione delle parole, applicabili a tutti gli idiomi.
Se confrontate con queste forme generali del pensiero, le lingue storiche altro non sarebbero che manifestazioni spaziotemporali di una struttura metafisica più profonda: oltre il «velo di Maya» (l’espressione è di Whorf) costituito dalla mente individuale dei parlanti, ci sarebbe una psiche impersonale che si esprime in un linguaggio puro, di cui gli idiomi storici non sarebbero se non pallide imitazioni.

Al di là delle differenze tra le lingue e le culture, tutti gli esseri umani sarebbero dunque accomunati dall’appartenenza a una medesima sostanza, che se debitamente illuminata potrebbe portare a una «fratellanza» universale e a un’umanità pacificata. Ma la ricaduta politica di questa nobile idea ha un prezzo teorico: perché postulare una struttura di pensiero ultraterrena al di là delle lingue, quando queste possono essere concepite – materialisticamente – come un mutevole prodotto della nostra biologia? Per questo, le pagine finali in cui Whorf allude all’eternità come chiave di volta per la soluzione del problema storico della convivenza tra gli uomini, sembrano essere l’esito paradossale di un libro il cui pregio principale è proprio quello di sottolineare la matrice storica dell’esperienza umana.