Parigi sarà attraversata stamattina da una lunga «linea rossa», dei militanti ecologisti con il corpo dipinto e un tulipano rosso in mano (di produzione belga, nel rispetto delle pratiche durevoli), in vari punti della città, per ricordare i morti a causa del disordine climatico. Alle 14, è stata permessa malgrado lo stato d’emergenza una manifestazione al Champs de Mars, sotto la Tour Eiffel, «a condizione di avere il volto scoperto».
La saggista-militante Naomi Klein accusa la presidenza francese della Cop21 di voler marginalizzare i movimenti: «Riprendiamoci la piazza sabato alle ore 12 – afferma – non vinceremo nulla se non difendiamo il diritto di essere in piazza», perché «la libertà non è solo una parola, è un dovere». Naomi Klein chiede ironicamente un «accordo sul clima che dia ai paesi vulnerabili le stesse protezioni che il Ttip dà alle imprese», e aggiunge: «Questa conferenza è già fallita prima di cominciare».

Le manifestazioni, anche se ridotte, rischiano di aver luogo in assenza del testo finale dell’accordo di Parigi. Il presidente, Laurent Fabius, ha promesso una nuova versione dell’accordo per stamattina alle ore 9. Così ci sarà poi la giornata per discutere ancora i punti controversi. Intanto, la penultima versione, prima della nuova notte bianca, è ancora dimagrita: siamo a 27 pagine (i negoziatori erano partiti da 55 pagine, via via ridotte a causa dei tagli quando non c’è intesa). Le parentesi quadre, cioè le opzioni alternative, sono ridotte a una cinquantina (erano ancora 350 la vigilia). Il testo, respinto venerdì mattina, si divideva in 26 articoli.

Per il segretario di stato Usa, John Kerry, ci sono «ancora dei temi difficili in discussione». Fabius promette un «accordo ambizioso, giusto, durevole», ma ammette: «C’è ancora del lavoro da fare, le cose vanno nel senso buono», il testo deve essere «messo in ordine».

Obama ha parlato al telefono con Xi Jinping, prova che qualche passo avanti è in corso, almeno sul fronte del progressivo cambiamento delle mentalità. Ma quello che non ci sarà nell’accordo, saranno impegni «vincolanti». Fabius ha trovato la scappatoia e parla di «vincolo politico», cioè un impegno di fronte al giudizio del mondo. Ma negli accordi Onu non ci sono sanzioni precise (a differenza degli accordi multilaterali conclusi ai margini dell’Onu, come il Wto).

Gruppo 77 (134 paesi in via di sviluppo, con la Cina), coalizione degli «ambiziosi» (Ue, Usa, Norvegia, Messico), gruppo «ombrello» (Canada, Russia, Kazakhstan, più Australia e Giappone), il gruppo Africa e le altre coalizioni in campo, tutti tirano acqua al proprio mulino nelle ultime ore della direttiva finale. Alle indaba, termine zulu che significa «riunioni», che Fabius ha battezzato «indaba delle soluzioni» e a cui ha convocato dei gruppi ristretti di discussione (un capo-delegazione per parte in causa, accompagnato da sole due persone), lo scopo è obbligare ogni paese e gruppo di paese a mettere sul tavolo tutte le carte, per scoprirsi sulle «linee rosse» che non si possono oltrepassare. Intanto, è scomparso il riferimento al prezzo del carbonio, meccanismo osteggiato dai produttori di petrolio, una vittoria dell’alleanza tra Venezuela e Arabia saudita. Sono scomparsi dall’articolo 2 anche i riferimenti al rispetto dei «diritti umani», all’«eguaglianza di genere» e a favore di «una transizione giusta verso un’economia durevole».

Gli «ambiziosi» si fanno belli per aver accettato il riferimento al «proseguimento degli sforzi per limitare un rialzo delle temperature di 1,5°», una formula alleggerita della domanda dei paesi più vulnerabili, che va un po’ al di là dell’impegno sul mantenimento del riscaldamento climatico entro i 2° (già nell’accordo di minima a Copenaghen). Ma la Russia ieri ha rifiutato in blocco. E c’è un neo: il testo parla di «neutralità» delle emissioni di gas a effetto serra e ha cancellato la formula «decarbonizzazione». Significa che possono intervenire delle tecnologie moderne, per esempio delle centrali a carbone con captazione di Co2, per rispettare l’impegno e che quindi viene cancellato l’obiettivo di arrivare a 100% di energie rinnovabili.

La Ue è stata messa all’angolo su questo punto dalla Polonia, che si è impuntata (perché ha molte centrali a carbone). Per questo gesto, Varsavia ha ottenuto giovedì il premio Fossile of the day (Fossile del giorno) dato dalle ong ambientaliste, che premiano giorno dopo giorno i campioni del freno alla riconversione energetica.

Sulla «differenziazione» – impegni vincolanti per il Nord, maggior responsabile del climate change e volontarismo per il Sud, principale vittima – resta nel vago: «I paesi sviluppati devono continuare ad essere all’apice» degli sforzi, recita l’ultima versione. Il Nord vuole che alcuni emergenti, Cina, ma anche Brasile o India, prendano impegni precisi, ma questi fanno orecchio da mercante. Stesso scenario sui finanziamenti. L’articolo 6 resta più vago che mai, pieno di parentesi quadre. In sostanza, la cooperazione resta «volontaria». I 100 miliardi di dollari l’anno per finanziare transizione e adattamento al Sud restano sulla carta, ma nei fatti non sono ancora stati raggiunti. Il Nord, inoltre, non vuole sentir parlare di «risarcimento danni» per i paesi già colpiti (i più poveri). L’accordo, comunque, riguarda solo il periodo fino al 2030. E poi? Quali ambizioni? Le date saltano, man mano che il negoziato avanza. La «revisione» degli impegni comincerà quando? Anche qui, si rimanda nel tempo. Tensioni anche sulla «trasparenza», cioè: quali controlli per verificare che ogni paese rispetta gli impegni presi? Il termine-chiave qui è «flessibilità» (e soprattutto che nessuno ficchi il naso nella «sovranità nazionale»).