Abu Ishaq al Masri ed Abu al Bar’a al Masri. Sono i nomi di battaglia dei due jihadisti-kamikaze responsabili delle stragi di 44 egiziani copti, domenica scorsa in due chiese, a Tanta e ad Alessandria. Avevano combattuto in Siria nel nome del califfo dello Stato islamico, al Baghdadi. La televisione al Arabiya, facendone l’identikit, li ha descritti come istruiti e non più giovani. Abu Ishaq, autore dell’attacco nei pressi della chiesa di San Marco ad Alessandria d’Egitto, era originario di Manyat al Kamh, una cittadina a nord del Cairo dove si era laureato in economia e commercio. L’altro kamikaze, Abu al Bar’a, responsabile della strage nella chiesa di Mar Girgis a Tanta veniva dal villaggio di Abu Tabl, sempre nel nord dell’Egitto, ed era diplomato in artigianato, sposato e padre di 3 figli. Entrambi non hanno esitato ad uccidere 44 connazionali solo perché cristiani.

Gli ultimi massacri hanno segnato profondamente la minoranza copta, già bersaglio di un grave attentato lo scorso dicembre alla cattedrale di San Marco al Cairo (29 morti). Tanti ieri hanno urlato la loro rabbia durante i preparativi dei funerali delle vittime. «Siamo indifesi, nessuno ci protegge, le autorità non attuano misure di sicurezza serie», protestano amici e parenti di morti e feriti intervistati da giornali e tv locali. La paura sta avendo il sopravvento. Non sembrano offrire un rifugio sicuro neanche il Cairo e le principali città egiziane dove centinaia di famiglie cristiane del Sinai si sono trasferire in questi ultimi mesi sotto la minaccia della branca locale dell’Isis – ex Ansar Beit el Maqdes – che di fatto ha preso il controllo del nord del Sinai nonostante i proclami di «battaglie vinte contro i terroristi» che lancia il generale Mustafa al Razaz, capo del locale comando militare. Il mese scorso gli uomini del Califfato hanno fatto circolare in rete un video di una ventina di minuti che, facendo riferimento all’attentato dello scorso dicembre al Cairo, minaccia tutti i copti: «Voi, crociati d’Egitto, questa operazione che vi ha colpito nel vostro tempio, è solo la prima, dice nel filmato un uomo mascherato, e sarà seguita da altre operazioni, se Dio lo permette. Voi siete il nostro primo obiettivo e la nostra pesca preferita». Tra gennaio e febbraio sono stati uccisi sette copti a el Arish, il capoluogo del Sinai, senza che il governo abbia fatto passi concreti per difendere la comunità cristiana nella penisola.

Domenica sera il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi ha dichiarato lo stato di emergenza per tre mesi, per «proteggere» e «preservare» il Paese. L’annuncio che ha avuto lo scopo anche di segnalare al Vaticano che il regime è in grado di garantire le condizioni di sicurezza necessarie per lo svolgimento della visita in Egitto di papa Francesco, prevista a fine mese. Viaggio che il pontefice ha confermato raccogliendo in Egitto l’approvazione dei massimi rappresentanti religiosi cristiani e musulmani. Subito dopo l’annuncio di al Sisi il ministero della difesa ha dispiegato migliaia di soldati e mezzi blindati a difesa delle «strutture e infrastrutture vitali» e di tutti gli obiettivi sensibili. Le misure eccezionali ampliano ulteriormente i poteri del raìs che potrà far giudicare i civili dalle corti di sicurezza e bloccare i verdetti delle stesse corti, ordinare di monitorare le comunicazioni e la corrispondenza e imporre censure alla stampa e la requisizione di proprietà private. Proprio ieri è stata annunciata la confisca del giornale al Bawaba, che pure sostiene apertamente il regime, perché in un editoriale sugli attentati il direttore aveva accusato di negligenza il ministro dell’interno Magdy Abdel Ghaffar. Il presidente potrà anche ordinare la chiusura di fabbriche e imporre il coprifuoco a tempo intederminato.

Lo stato d’emergenza è stato spiegato da al Sisi come un provvedimento urgente e necessario per combattere il terrorismo ma offre al regime nuove armi per mettere il bavaglio ad oppositori e dissidenti. «È evidente che queste misure non sono fatte per fermare il terrorismo» diceva ieri al manifesto Gamal Eid, storico attivista dei diritti umani e direttore dell’Arabic Network for Human Rights Information che ha difeso numerosi oppositori del regime dell’ex presidente Hosni Mubarak e del regime attuale. «Un terrorista intenzionato a compiere un attentato suicida non potrà essere fermato da queste leggi d’emergenza che, invece, sembrano essere state varate apposta per colpire gli oppositori», ha aggiunto Eid, sottolineando che le violazioni dei diritti umani in Egitto sono «sistematiche» e in aumento. «Questo è il Paese dove un presidente (Mubarak) responsabile di crimini contro la sua gente è stato rimesso in libertà ed in cui un cittadino normale può essere incarcerato per anni solo per aver preso parte a una manifestazione. Il regime attuale è la continuazione di quello di Mubarak», ha sottolineato Eid che poi ha commentato l’andamento sconfortante delle indagini in Egitto sul brutale assassinio di Giulio Regeni attribuito un po’ da tutti ai servizi di sicurezza egiziani. «Purtroppo le cose stanno andando come ci aspettavamo, non avevamo speranza che potessero procedere diversamente», ha detto l’attivista egiziano, che poi ha aggiunto «voglio comunque rassicurare la famiglia di Giulio Regeni che i centri per i diritti umani in Egitto non si arrendono e continuerano a cercare la verità al meglio delle loro possibilità. Siamo sicuro che un giorno, ci auguriamo presto, Giulio Regeni possa avere giustizia».