La lana italiana ha un passato glorioso. Sulla sua lavorazione e sul commercio dei panni di lana si costruivano fortune famigliari e destini politici. Poi tutto è cambiato, la produzione di panni lana ha lasciato il posto ad altro, e altri territori monopolizzano il mercato – la Nuova Zelanda, l’Australia, la Patagonia – ma il nostro Paese ha ancora una forte vocazione pastorale, finalizzata soprattutto alla produzione di formaggio e di carne. La maggior parte dei nostri ovini però non produce lane finissime, di pregio, competitive sui mercati internazionali. Ma la lana ha molti impieghi, non solo tessili. Eppure oggi, la lana degli otto milioni di ovini che pascolano nel nostro paese è diventata un problema.

OGNI ANNO LE PECORE ITALIANE PRODUCONO 12 milioni di chili di lana sucida, cioè sporca, da lavare e poi collocare su un mercato che negli ultimi anni si è praticamente azzerato e le lane tosate rimangono spesso invendute. Fanno eccezione alcuni casi rari, esemplari, di recupero di questa risorsa grazie alla lavorazione artigianale a livello locale di maglioni, guanti, feltro per abiti o accessori casalinghi, che non possono essere però la risposta alla necessità di collocare milioni di chili di lana l’anno.

QUAL E’ STATO IL PERCORSO che ha trasformato quello che era un ricavo aggiuntivo per i magri bilanci agricoli, in un costo puro? Si comincia con il costo della tosa, oggi praticata spesso da professionisti che vengono dalla Nuova Zelanda, dai Paesi Baschi e dall’Australia. In pochi minuti e per un euro e quaranta centesimi o poco più tosano una pecora: un lavoro che ogni allevatore fino a pochi decenni fa sapeva fare da sé. Ogni pecora produce più o meno 1,5 kg di lana.

NEGLI ANNI PASSATI IL PREZZO MEDIO di mercato della lana, era intorno ai 25/30 centesimi al chilo. I conti sono presto fatti, ma almeno anche se a prezzi ridicoli, le lane erano assorbite dal mercato. I commercianti le piazzavano come isolante termico nel settore dell’edilizia, oppure le spedivano in nord Africa o in Oriente, per farne tappeti.

OGGI QUESTO MERCATO E’ QUASI DEL TUTTO scomparso perché pochi acquistano ancora la lana sucida, occorre metterla sul mercato lavata e selezionata. L’ultima struttura italiana in grado di lavare grandi quantità di lana, che si trovava a Gandino (Bg), ha chiuso. Ne rimane una di piccole dimensioni in Toscana, insufficiente al fabbisogno, e per i pastori la situazione si fa dunque drammatica. Molti di loro si trovano a stoccare la propria lana in azienda perché l’alternativa è lo smaltimento. È un reato sotterrarla o disperderla sui campi, come a volte per disperazione qualcuno fa. E lo smaltimento comporta un ulteriore gravoso costo: la lana secondo la normativa europea è infatti considerata un sottoprodotto di origine animale speciale perché, essendo sporca, potrebbe contenere patogeni. Lo smaltimento si può fare solo presso soggetti autorizzati e secondo normative precise, come un qualunque materiale a rischio igienico-sanitario. Ma c’è chi prova a ricomporre l’assurdo, a ristabilire un legame tra chi produce lana, chi sa trattarla, chi può lavorarla con arte o utilizzarla in modi alternativi nell’edilizia o in agricoltura.

L’AGENZIA LANE D’ITALIA, L’ISTITUTO per la Bioeconomia, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR IBE), e il Gal Barigadu-Guilcer, il Gal Valle Seriana e dei laghi bergamaschi, il Gal Quattro Parchi Lecco-Brianza, hanno proposte concrete per rimettere in circolo questa risorsa in modo ecologico e solidale, oltre che per sostenere il mondo della pastorizia, e hanno lanciato il Manifesto delle Lane Autoctone.

GLI ESTENSORI DEL «MANIFESTO», che Slow Food sostiene, si propongono di trasformare la lana da rifiuto a risorsa cominciando dalla modifica della normativa che ha ridotto la lana alla stregua di un rifiuto speciale. È necessario poi creare centri di lavaggio e di stoccaggio della lana nelle aree in cui si conservano ancora conoscenze tecnico-professionali che possono garantire gli standard necessari per una filiera di qualità. Occorre inoltre sensibilizzare e formare gli allevatori, perché pratichino la tosatura nel modo migliore per ottenere lane selezionate secondo qualità e uniformi. Non va abbandonata infatti la possibilità di ottenere tessuti con alcune lane italiane: la razza ovina gentile di Puglia ha un vello fine e avrebbe tutte le carte in regola per produrre filati di qualità, soddisfacendo le richieste del mercato della moda che ha scoperto il valore della sostenibilità.

IL «MANIFESTO» RICORDA CHE QUESTO prodotto ha molti impieghi. Mentre è già noto l’impiego della lana per l’isolamento acustico e termico in edilizia, sono poco conosciuti gli impieghi invece molto promettenti per i terreni agricoli. Gli ammendanti a base di lana pellettata, che possono sostituire i fertilizzanti di sintesi, esistono già ma non possono essere posti ancora in commercio per via di ostacoli normativi.

LA LANA SI USA ANCHE NELLA COSMESI (cheratina e lanolina), nella produzione di bioplastiche e biomateriali (lana in polvere), può essere usata come assorbente per raccogliere la chiazze di inquinanti marini invece di usare solventi chimici e altri materiali, è un pacciamante (nel settore dell’ortoflorovivaismo).

IL «MANIFESTO DELLE LANE AUTOCTONE» chiede al governo di incentivare le soluzioni ecologiche che contemplano l’uso della lana. Questo prodotto potrebbe essere una risorsa in più per i pastori che presidiano territori marginali. Le greggi ovine brucano i pascoli e favoriscono così l’arricchimento di biodiversità dei suoli e delle essenze foraggere, puliscono le aree di sottobosco ostacolando gli incendi. Un valore ambientale di cui non si può non tenere conto in questo momento storico.
Per sostenere il «Manifesto» è stata lanciata anche una raccolta firme sulla piattaforma Change.