«Lei stia zitto, è della Cnn, non può fare domande, siete bufalari!». Scene da una conferenza stampa: la prima tenuta dal neoeletto presidente degli Stati Uniti in oltre sei mesi è stata un caratteristico ibrido trumpiano di comizio e briefing dove non era previsto contraddittorio.

Ad irritarlo sono state le domande sull’ultimo «dossier russo» rimbalzato sul sito Buzzfeed con insinuazioni non verificate di scandali sessuali a Mosca e contatti segreti fra il Cremlino e lo staff di Trump. Illazioni di dubbia sostanza che hanno però sottolineato l’astio senza precedenti  che accompagna l’installazione di questo presidente.

Un anticipo della svolta radicale che sta per verificarsi alla Casa Bianca, sottolineata dal contrasto con il discorso di commiato pronunciato da Barack Obama  appena 12 ore prima. Due momenti che hanno fotografato  una nazione spaccata fra due epoche e due concezioni radicalmente contrarie di politica, governo e potere.

Ieri gli americani hanno assistito all’uomo che fra una settimana sarà presidente alzare il tiro nella sua guerra ormai aperta coi servizi di intelligence e la stampa e delineare il proprio programma con un remix di slogan elettorali e aggettivi celebratori. L’amministrazione avrà un meraviglioso gabinetto di persone super intelligenti e otterrà fantastici risultati, cancellerà le orribili politiche di Obama e  renderà nuovamente grande l’America.

La sera prima il suo predecessore si era esibito nell’ultimo esercizio di oratoria presidenziale. Per Obama quello del McCormick Place della “sua” Chicago, davanti a 18.000 persone adoranti e ripetutamente in lacrime, è stato un ultimo bagno di folla su cui è gravata tuttavia una sensazione persistente di sogno incompiuto o quantomeno in procinto di essere consegnato ad un plotone di esecuzione che sta già affilando i coltelli per fare a  brandelli il suo lascito politico. «Four more years»,  ha intonato all’unisono la platea invocando altri quattro anni di Obama: «Sorry -ha risposto lui, solissimo sull’immenso palco – non è possibile».

A metà fra celebrazione catartica e rimpianto collettivo, il discorso fatto ad un pubblico per metà afroamericano a tratti è somigliato alla predica di una black church, le mese scandite nelle chiese dei quartieri neri. Prevedibilmente Obama ha difeso l’operato della sua amministrazione.

Ha rivendicato la riforma sanitaria che ha esteso l’assicurazione a 20 milioni di americani, i diritti dei gay elevati a politica ufficiale, le protezioni ambientali, la ripresa economica dalla peggiore recessione in 90 anni. Ogni “vittoria” enunciata è stata accolta da un ovazione ma su ognuna pesa ormai l’ombra della scure trumpista.

Obama non ha mai pronunciato il nome di Trump ma quell’ombra è stata l’implicita motivazione di un discorso che ha cercato di lasciare al proprio popolo, quella maggioranza di americani che non ha potuto impedire la vittoria di Trump, una traccia politica di quel Hope, la speranza che era stata il centro della sua campagna. «Il cuore battente dell’ardito esperimento americano di autogoverno (…) di libertà e pursuit of happiness» ha detto Obama, è l’idea di uguaglianza e diritti inalienabili.

Nell’«originale progetto americano» Obama ha voluto includere ancora «schiavi, immigrati, i martiri delle guerre» ma anche «di Selma e di Stonewall», momenti topici delle battaglie di neri, gay e donne che stanno per essere estromessi dalla nuova amministrazione.

«L’America è eccezionale, sì, ma non perfetta – ha affermato Obama – la sua lunga traiettoria è spinta da un moto di progresso», l’ultima parafrasi di Martin Luther King e del suo ‘arco dell’universo morale che tende alla giustizia’. Nel contesto del trumpismo imperante è stato un  anacronismo sottolineato dalla simultanea testimonianza in congresso di veterani del movimento di King contro il candidato di Trump a ministro di Giustizia, il segregazionista Jeff Sessions.

L’elogio dell’America multirazziale e multiculturale di Obama è stato un omaggio doloroso. Nella sua ultima narrazione universalista ha incluso gli immigrati, compresi quei 12 milioni che dalla prossima settimana saranno passibili di deportazione sommaria oltre la “muraglia di Trump”. «I ragazzi dalla pelle bruna rappresentano il futuro della nuova America».

Ma è suonato praticamente come un necrologio politico alla luce della restaurazione bianca rappresentata dal trumpismo e dalle sue eco: Putin ed i nazionalismi nativisti europei. Perché l’epilogo di Obama coincide con la controriforma razziale di un  emisfero che si chiude a riccio contro le masse brune del sud.

La prima presidenza afroamericana e la violenta reazione che vi segue ora si inserisce nella lunga storia di un paese alle prese ancora coi suoi peccati originali. E il «cammino ancora lungo verso le pari opportunità promesse dalla costituzione» citato da Obama subirà una deviazione. Il prossimo governo farà di tutto per rallentarlo, cominciando col revocare l’amnistia a mezzo milione di studenti “clandestini”.

Il progetto studiato dalla retroguardia reazionaria per invertire la rotta su ordine, repressione, discriminazione e turbocapitalismo oligarchico.

«Ho vinto alla grande», ha ripetuto poco dopo un tronfio Trump, millantando un mandato smentito dal voto popolare e respingendo in toto la questione dei conflitti di interesse. «Da cittadino sarò sempre accanto a voi»,  ha concluso invece il presidente uscente citando Il Buio Oltre la Siepe, come archetipo di una narrazione buonista, da film di Frank Capra, mentre la realtà assomiglia sempre più ad una sceneggiatura di Tarantino.

Gli abbracci sul palco di Chicago sono stati una lontana eco di quelli di Denver 8 anni fa e i sorrisi mesti hanno reso concreta la fine di un’era che molti sono destinati a rimpiangere. C’è buio oltre la siepe.