Segna un vero e proprio «ritorno a Hegel» l’ultimo libro di Axel Honneth, e – in un certo senso – una ripresa dell’ispirazione originaria della prima Scuola di Francoforte, quella di Horkheimer e Adorno, dopo che la «rottura epistemologica» effettuata da Habermas aveva introdotto nella tradizione della teoria critica un paradigma fondato su Kant. Insomma, la cosiddetta «terza generazione» francofortese, di cui Honneth è certamente il rappresentante più autorevole, sembra voler riallacciare i rapporti con i «padri fondatori» e, grazie alla recuperata influenza hegeliana, rimettere in piedi una rinnovata teoria critica della società, dopo che Habermas sembrerebbe avervi rinunciato.

In effetti, la formazione filosofica di Honneth, prima del suo incontro con Habermas, quando negli anni ottanta diventò suo assistente a Francoforte, ha tratti tipicamente hegelo-marxiani, anche grazie all’influenza del sociologo Urs Jaeggi, presso il quale ottenne il dottorato a Berlino nel 1983. La successiva collaborazione con Habermas a Francoforte, durata ben sei anni, fu però decisiva, perché da lui Honneth apprese la centralità dei rapporti comunicativi e il carattere specificamente normativo che caratterizza le interazioni sociali. Ed è sempre grazie a Habermas che riscoprì uno Hegel diverso, quello del periodo jenese, per il quale lo «spirito» è costituito essenzialmente da rapporti sociali caratterizzati in senso comunicativo e etico. Fu in questo contesto che Honneth maturò la sua idea filosofica fondamentale, ovvero la centralità del riconoscimento nella formazione dell’identità individuale e nelle dinamiche sociali. La tesi sviluppata nel suo libro più celebre, Lotta per il riconoscimento (del 1992), è che i conflitti sociali e i processi di emancipazione sono regolati fondamentalmente da una grammatica morale, nella quale la posta in gioco è il riconoscimento della dignità degli individui.

Non solo le lotte per i diritti, ma anche le rivendicazioni tipicamente economiche, come le lotte per il salario, sono mosse in ultima istanza da ragioni di tipo etico. E questo perché la struttura della nostra identità individuale, fin dalle prime fasi della sua esistenza, si forma grazie a rapporti di riconoscimento, nei quali vengono veicolati i valori della fiducia, del rispetto e della solidarietà non solo nei confronti dell’altro ma anche nei confronti del sé.

La stessa idea dell’autonomia individuale e della libertà si costituisce dentro questo tipo di rapporti, da cui deriva l’istanza normativa fondamentale del rispetto di sé e il rifiuto di ogni rapporto caratterizzato dal misconoscimento, dal disprezzo o dall’oltraggio.

Benché profondamente influenzato dalla prospettiva comunicativo-normativa di Habermas, Lotta per il riconoscimento, ne segna però anche l’essenziale distacco. L’idea di Honneth, maturata proprio sui testi hegeliani, è che le norme morali non debbano ricevere la loro giustificazione grazie a una procedura consensuale-argomentativa, come quella delineata da Habermas nell’Etica del discorso, ma che esse vadano ricostruite a partire dallo sfondo etico implicito nei nostri rapporti di riconoscimento. Insomma, la moralità non è l’esito di una procedura formale, svolta in condizioni idealizzate, non è una costruzione artificiale, ma ha a che fare con ciò che noi già facciamo, con l’etica già implicita nella struttura della nostra personalità, con le norme e i valori incorporati nei nostri rapporti di riconoscimento. In questo paradigma del riconoscimento, e nell’idea di autorealizzazione morale che gli è implicita, Honneth fonda la possibilità di una teoria critica della società, che viene ad assumere quindi un carattere essenzialmente normativo.

Lo scenario cambia in modo sensibile con l’ultima opera, uscita in Germania nel 2011 e ora pubblicata da Codice con il titolo Il diritto alla libertà Lineamenti per un’eticità democratica (traduzione di Carlo Sandrelli, prefazione di Gustavo Zagrebelsky, pp. XLVI-528, euro 35,00), l’opus magnum al quale il filosofo francofortese ha dichiarato di aver lavorato per quasi cinque anni. Il periodo intercorso fra le due opere ha intanto visto crescere la figura internazionale di Honneth, dopo che nel 1996 ha potuto ereditare la cattedra di Habermas a Francoforte e successivamente assumere anche la direzione del celebre Institut für Sozialforschung, rilanciandone l’attività di ricerca dopo il lungo periodo di appannamento seguito alla morte di Adorno.
Se il riferimento principale di Lotta per il riconoscimento era costituito dal giovane Hegel jenese, qui è lo Hegel maturo di Berlino a costituire la fondamentale fonte di ispirazione: Il diritto alla libertà può infatti essere considerato come una riscrittura contemporanea dell’opera politica fondamentale di Hegel, la Filosofia del diritto. Di essa mantiene la tipica struttura tripartita in diritto astratto, moralità ed eticità, sfere interpretate da Honneth come incorporanti tre differenti modelli di libertà: quella negativa del diritto (per la quale la libertà si identifica con l’assenza di impedimenti, cioè con la difesa dell’individualità da interferenze esterne), quella riflessiva della moralità kantiana (per la quale la libertà si fonda sulla capacità positiva e autonoma di darsi da sé la propria legge) e quella sociale dell’eticità (per la quale la libertà risulta essere l’esito delle interazioni con gli altri e con le istituzioni sociali nelle quali avvengono quelle interazioni: le tre dimensioni dei rapporti personali, di quelli economici, di quelli politici).
Sebbene non sia in questione il fatto di assumere quei modelli come alternativi, poiché essi sono reciprocamente complementari, è tuttavia la libertà sociale ad essere la condizione perché quelle altre forme di libertà possano trasformarsi da mere «possibilità» a libertà effettive. Senza quelle che Hegel chiamava le istituzioni dell’eticità (cioè famiglia, società civile e stato) la libertà morale e quella giuridica degenerano facilmente in ciò che Honneth chiama «le patologie della libertà». Al contrario, dopo essere passati attraverso i processi di socializzazione svolti dalle «sfere etiche», gli individui possono finalmente apprendere l’uso effettivo della libertà. La tesi di Honneth, in ciò buon discepolo di Hegel, è che noi «impariamo» dagli altri a essere liberi.
Dunque, anche in questa sua ultima opera i rapporti di riconoscimento continuano a svolgere un ruolo essenziale, ma vengono ancorati dentro specifiche istituzioni sociali. È in esse che avviene il riconoscimento reciproco fra gli individui ed è grazie a esse che noi apprendiamo i valori fondamentali. Ne risulta una sorta di realismo morale: il bene non dimora nella nostra interiorità, né può risultare da una procedura argomentativa, ma è presente, come incorporato, dentro le istituzioni sociali. E da esse noi apprendiamo anche il nostro bene fondamentale: la libertà. La celebre tesi hegeliana dell’identità del razionale e del reale riceve qui la sua riabilitazione in un contesto post-metafisico: la razionalità, l’idea di autonomia, la moralità sono realmente esistenti dentro le istituzioni sociali del riconoscimento, il che spiega la rinuncia di Honneth a qualsiasi giustificazione filosofica del «diritto alla libertà»: questo è solo il risultato della storia che sta dietro di noi. Perciò, – contro il formalismo kantiano di Rawls e di Habermas – la teoria della giustizia (che in quel diritto alla libertà trova il suo fondamento) non può che presentarsi come teoria della società, cioè fondata su basi esclusivamente storiche e sociali.
D’altra parte, una volta che questo valore fondamentale sia stato appreso, può anche essere usato contro quelle istituzioni che non lo rispettano. Ingiustamente l’opera di Honneth è stata accusata di conciliazione con l’esistente e di giustificazionismo storico: il principio della libertà appreso dalle istituzioni storiche mantiene sempre, per il filosofo francofortese, una specifica trascendenza rispetto alle sue incarnazioni. E proprio in quella trascendenza si radica lo spazio per la riflessività critica. Ciò spiega quella parte dell’opera in cui Honneth esercita la sua diagnosi negativa: nei confronti del mercato, del consumo, delle condizioni di lavoro, della crisi dello stato democratico, dei fenomeni di depoliticizzazione. La teoria critica ritrova qui lo spirito delle origini horkheimeriane: non la critica dell’esistente a partire da ideali astratti ma l’esperienza della contraddizione reale tra la libertà e la giustizia che abbiamo appreso socialmente e la loro sistematica violazione di cui facciamo quotidianamente esperienza.