Un’isola è il punto di osservazione sul mondo scelto in questo Poesia dal futuro. Manifesto per un movimento di liberazione planetario (Bompiani, pp. 328, euro 15,20, traduzione di Daniele Didero) di Sreko Horvat. Horvat è conosciuto in Italia, oltre che come filosofo, per il suo impegno nel movimento Diem25, che prova a coniugare il rilancio di un progetto europeista con la critica dell’Europa reale delle politiche di austerity. Questo libro sceglie di partire appunto da un’isola per sostenere la necessità e l’urgenza di riconquistare un orizzonte di analisi globale e una nuova militanza internazionalista.

LISSA, ISOLA DALMATA piuttosto isolata ma non tanto da salvarsi dalla turistificazione, è un buon esempio di come «la realtà è penetrata anche nelle isole più sperdute»: i segni degli «aggiustamenti strutturali» che avrebbero dovuto condurre la Croazia ai paradisi del libero mercato sono ben presenti sull’isola, oggi completamente trasformata da un’economia turistica ferocemente privatizzante ed escludente.

Lissa è però anche un richiamo alla resistenza: all’inizio del 1944 proprio da Lissa il reporter irlandese Denis Johnston registrò per la Bbc un primo servizio sulla guerra di liberazione, in un’Europa ancora quasi integralmente sotto occupazione. Lissa si era liberata alla caduta di Mussolini in Italia, una liberazione ad opera di pescatori e operai, che avevano ben chiaro come la guerra di liberazione dovesse innescare contemporaneamente anche un processo di radicale trasformazione sociale: a partire da quella «completa uguaglianza» tra donne e uomini di cui un ufficiale della Raf raccontò a Johnston, ammirato e un po’ sconcertato da quell’«esercito strano, dove uomini e donne combattono, vivono e lavorano assieme». Resistenza e capacità di costruire immediatamente un’alternativa sociale non sarebbero bastate, però, se non ci fosse stata la consapevolezza di lottare, insieme, per la liberazione propria e dell’intero mondo occupato.

QUESTA MEMORIA, è per Horvat, marxianamente, «poesia dal futuro» per il nostro presente, ne rompe l’asfissiante assenza sia di prospettiva storica che di progetto. Il capitalismo globale si connette sempre più a politiche di controllo onnipervasive, all’irrigidimento delle frontiere, all’incorporazione di elementi populisti e autoritari. Non è pensabile costruire resistenza a questo capitalismo ferocemente autoritario, se non scegliendo nuovamente per la lotta partigiana, il che, nel nostro presente, significa nuovamente provare a congiungere autogoverno, organizzazione e internazionalismo. Horvat ripercorre così i movimenti di resistenza all’austerity del ciclo di lotte che si è aperto nel 2011 con le primavere arabe, Occupy e gli Indignados, nel 2015 ha conosciuto con l’Oxi greco il momento di opposizione più deciso in Europa ma anche il contraccolpo più feroce, fino a giungere al 2017 con le durissime mobilitazioni di Amburgo per il vertice del G20.

RESISTENDO ALLA TENTAZIONE di leggere in queste lotte semplicemente una serie di sconfitte, Horvat preferisce indagarne le potenzialità, sempre nella prospettiva aperta da una rinnovata scelta partigiana. Si tratta di comprendere fino in fondo che non esiste più nessuna isola. Le esperienze di autogoverno e di autogestione sono fondamentali, come luoghi che sperimentano la produzione di nuovi modelli sociali, ma nessuna autonomia può considerarsi astrattamente esterna rispetto al capitale globale. L’orizzontalità delle esperienze non può perciò evitare il confronto con i problemi della durata, dell’organizzazione, della verticalità: forum e contromanifestazioni devono sapersi ibridare con la costruzione di strutture permanenti e di contropoteri. Allo stesso tempo, ogni esperienza organizzativa deve proiettarsi almeno potenzialmente sul piano transnazionale, pensarsi come globalmente riproducibile: la costruzione di un nuovo internazionalismo appare l’unico terreno sul quale l’accumulo di esperienze dei movimenti globali può oggi rompere la malinconia delle sconfitte.

SCRITTO PRIMA della pandemia, questo invito a reinventare la militanza transnazionale ha ora acquistato, probabilmente, nuovi motivi di urgenza. La liberaldemocrazia euro-atlantica appare oggi sempre più schiacciata su politiche escludenti, non facendosi mancare ormai neanche orizzonti da rinnovata guerra fredda. I movimenti ecologisti e femministi hanno saputo rimettere al centro l’urgenza di pensare il mondo in termini di connessione e di totalità: un nuovo internazionalismo costringerebbe a rompere i ripiegamenti identitari che troppo spesso bloccano la capacità dei movimenti di creare coalizioni sociali, e creerebbe i presupposti per agire lungo le nuove linee di divisione di un capitalismo globale sempre più feroce, ma anche sempre meno omogeneo e unitario.