«Ancora prima che esistesse il mondo, i Tre Dei Celesti della Creazione vivevano nelle Piane del Cielo Alto. Dopo di loro, sette generazioni di dei crearono gli elementi con cui è fatto l’universo. In quel tempo, la terra era ancora senza forma, fluttuante negli oceani.
Gli Dei del Cielo, allora, diedero alla luce due esseri divini, l’essenza maschile Izanagi e l’essenza femminile Izanami. (…) Le due divinità raggiunsero, così, l’arcobaleno che congiungeva il cielo alla terra, l’ame no hashi date (ponte fluttuante del cielo) e sospesi al di sopra delle acque salmastre e turbinanti, vi immersero dall’alto la lunga lancia e, quando la ritrassero, dalla punta di quella lancia gocciolò del fango, che rapprendendosi divenne la prima isola del mondo. L’isola di Onogoro». Così recita uno dei miti di fondazione giapponesi ripreso nel Kojiki, il testo redatto nel 712 d.C. fonte d’ispirazione per la mitologia shintoista. La goccia di fango che diventò l’isola di Onogoro, e le prime isole dell’arcipelago nipponico create in seguito, corrispondono secondo molti studiosi a quelle che attualmente si trovano nel Setonaikai, il Mare Interno di Seto, quella porzione di mare che separa tre delle quattro maggiori isole che compongono l’arcipelago nipponico.
In questo tratto di mare sono presenti circa tremila isole, alcune piccolissime e disabitate alcune molto più grandi e ricche di storia e tradizioni peculiari. Con l’accentramento della maggior parte delle attività economiche nell’isola di Honshu però, e soprattutto con lo slittamento del Giappone da un’economia agricola e ittica verso una di tipo industriale e terziaria, cominciato di fatto più di cento anni fa, è questo un territorio che, come molte altre zone del Giappone rurale, subisce da decenni un costante depopolamento. Nel 2010 più contrastare questa tendenza forse inarrestabile, ma probabilmente per rivalutare il territorio e riportare l’attenzione, anche economica, su queste isole si è deciso di istituire una Triennale d’arte, che oggi vede la sua seconda edizione. La Triennale di Setouchi, che in questo 2013 si tiene in primavera, estate ed autunno, è un festival artistico che si espande orizzontalmente a connettere molte delle principali isole di questo mare, opere d’arte contemporanea, eventi musicali, installazioni, video arte, sculture, micro progetti urbanistici, vecchie abitazioni rimodellate e trasformate che inserendosi nel paesaggio ora montagnoso, ora marino, ora costiero di queste zone vanno a creare un artscape abbastanza unico nel suo genere.
Un’affascinante modo per raggiungere le isole è quello di partire dal porto di Kobe, in traghetto ed in tre ore raggiungere quella che è l’isola più grande dove si svolge la manifestazione, Shodoshima. Nelle tre ore di navigazione sul ponte della nave possiamo già entrare in sintonia con l’atmosfera che ci attenderà, una gigantesca opera di Kenji Yanobe, Torayan, personaggio dal libro da lui stesso illustrato, Torayan’s Great Adventure, e ispirato dalla sua visita a Chernobyl nel 1997; abitante di un mondo post atomico svetta in tutto il suo fulgore pop e kitsch quasi a salutare le terre che il traghetto si appresta a toccare.
Arrivati a Sakate, il porto di Naoshima, sono ancora due opere dello stesso artista giapponese ad attirare l’attenzione del visitatore: The Star ANGER, una sfera argentea su cui è seduto un drago situata dove un tempo c’era il faro, che quasi si rispecchia con un enorme murale, sempre in zona porto, dove il mondo immaginifico e bestiale di Yanobe è pennellato con macabra precisione. Lo stesso artista in collaborazione con il regista Takeshi Kitano ha realizzato su una collina dell’isola un’installazione a tempo, Anger from the bottom, un mostro di 5 metri dal capo argenteo e il corpo nero, con un’ascia piantata sulla testa, che si manifesta uscendo da un vecchio pozzo ogni trenta minuti. Situata nelle vicinanze di quella che è la fabbrica di salsa di soia più vecchia dell’isola, ed in una zona molto tradizionale allo sguardo, case basse di legno scuro, l’installazione che ad ogni sua uscita dal fondo del pozzo si accompagna a un boato, sembra essere una divinità ctonia, che abita le zone oscure dell’sola e, come molto cinema di Kitano ci ha magnificamente insegnato, rappresenta anche il negativo che è in ognuno di noi, ciò che si manifesta a scatti e senza preavviso come una maligna pulsazione dal profondo.
Fra le tante opere che popolano Shodoshima, isola famosa anche per i suoi uliveti e la produzione di olio d’oliva, la prima che ha avuto successo, meritano senz’altro una visita There is no smoke without fire, con cui l’artista in una scuola abbandonata ha assemblato vecchi utensili. Interessante l’idea di usare le carriole come frame dove inserire delle enormi fotografie d’epoca digitali, che venivano un tempo usate per la raccolta e l’essiccazione del tabacco, nel periodo pre-bellico una delle industrie più fiorenti dell’isola.
Uno dei lavori più affascinanti e carico di pathos è Stories-Houses di Yume Akasaka, la giovane artista giapponese sceglie un’antica casa oramai disabitata e ne fa «rivivere lo spirito» con delle apparizioni spettrali, immagini tenuissime che si proiettano prima su una parete ora sull’altra delle stanze, all’improvviso. Una bambina che cammina giocando col suo cerchio di metallo, quasi una reminiscenza dechirichiana, un pesce che nuota calmo, una goccia che si tuffa nell’acqua, un’opera quindi che fa parlare le presenze fantasmatiche di un passato che non c’è più o forse che virtualmente ancora abita tutte queste vecchie stanze ormai dismesse. Un esperimento visuale molto riuscito, soprattutto quando esperito nel caldo torrido e afoso dell’estate giapponese, la stagione che per eccellenza nell’arcipelago porta alla mente i defunti; la festività dell’O-bon a metà agosto celebra il ritorno degli antenati, le tradizionali storie di fantasmi che si legano all’estate, e l’inevitabile ricordo della tragedia di Hiroshima e Nagasaki danno al periodo estivo, agosto in particolare, un afflato malinconico e propenso alla reminiscenza.
Spostandoci sulla costa, in prossimità del mare, raggiungiamo un magazzino ormai in disuso, al cui interno possiamo ammirare sculture di ceramica e grandi quadri dalle mille tonalità verde-blu: Chobozekka: The sole place where you can see matchless views. un’installazione con cui Yumiko Furukawa ha fatto rivivere divinità e leggende marine che circolano nell’isola da centinaia di anni, un patrimonio orale trasformato plasticamente in qualcosa di tangibile che ha un sapore rivelatorio, (ri)connette l’isola, ma in realtà tutto il Giappone, al mare a cui è indissolubilmente legata, dispensatore di vita e anche di morte. Lo tsunami del 2011 è una ferita che ancora sanguina copiosamente.
La ceramica è ancora protagonista in Tsugi-Tsugi-Kintsugi, ancora una volta è il passato che viene rielaborato dall’artista che realizza delle sculture con vecchi piatti, teiere ed oggetti vari creati nei decenni passati dagli artigiani del luogo.
Nel lasciare Shodoshima per la vicina Naoshima, percorrendo le strade tortuose che costeggiano il mare, qui e là appaiono delle enormi figure create con le stoppie, un elefante, un cinghiale, per di più figure d’animali che sembrano dei guardiani, quasi delle divinità miyazakiane che ci scortano nei nostri spostamenti. Si arriva a Naoshima dopo 30 minuti di traghetto e la piccola isola è probabilmente il sito più famoso, almeno a livello internazionale, di questa Triennale, già da una ventina d’anni infatti è luogo dove vecchie tradizioni oramai abbandonate si intersecano con le nuove frontiere dell’arte contemporanea, soprattutto per merito dell’architetto Tadao Ando che all’isola ha donato il suo genio nella realizzazione di ben due musei, il Benesse House Museum ed il Chichu Art Museum, entrambi creati seguendo la volontà di armonizzare il paesaggio locale con le costruzioni moderne, quasi che le linee della natura trovino il loro continuamento nel design voluto da Ando. Quasi per sdebitarsi, gli abitanti e le istituzioni del posto hanno voluto rendergli omaggio con la costuzione di un ulteriore museo dedicato proprio a colui che viene giustamente considerato il più importante architetto giapponese vivente.
Qui come in tutte le altre isole che compongono la manifestazione si nota come la vera protagonista di questa Triennale non è l’opera, l’installazione in sé, ma il paesaggio che la accoglie e con cui instaura una relazione simbiotica, è il frame che esalta e mette l’opera in condizione di stupire e far riflettere. Il fatto che le isole siano densamente spopolate, a parte qualche zona dove si concentrano i pochissimi ristoranti e altri locali, le loro aree ancora quasi selvagge e soprattutto le case, gli edifici e le fabbriche abbandonate sono una condizione necessaria per la riuscita di ogni singolo lavoro. La fruizione artistica comincia già lungo le strade tortuose che portano agli angoli disabitati e battuti dal vento salmastro dove le istallazioni trovano il loro ambiente ideale, si è immersi già nello spirito dell’evento fin da quando si sale sul traghetto.
Fra tutte le isole che ospitano la manifestazione, merita almeno un accenno per la storia che ci racconta, Oshima, di fatto un’isola lebbrosario fin dal 1907 quando la Legge per la Prevenzione della lebbra fu messa in atto condannando i malati afflitti dal morbo a vivere segregati dal resto della popolazione sul piccolo territorio, una storia terribile, di dolore e di isolamento quasi completo che si è protratta incredibilmente fino all’ abolizione della legge nel 1996.