Kos, la piccola isola del Dodecaneso bagnata dal mar Egeo giunta nelle prime pagine delle cronache mondiali la scorsa settimana in seguito alle tensioni tra i migranti e la polizia nello stadio Antagoras. Negli ultimi mesi l’isola di Kos è diventata il principale punto di accesso via mare per i rifugiati che dal Mediorente tentano di raggiungere l’Europa attraverso la Turchia. Dall’inizio del 2015 circa 7.000 migranti sono sbarcati dalla città turca di Bodrum – si parla di una media di 600 o 800 persone che ogni giorno sbarcano poco prima dell’alba sul porto di Kos attraversando il mare in piccoli e sovraffollati gommoni gonfiabili. L’accesso da Bodrum è uno dei più semplici canali d’ingresso in Europa. Il porto di Kos dista soli quattro chilometri dalla città turca di Bodrum, un tragitto piuttosto semplice che i turisti percorrono ogni giorno in circa 35 minuti pagando 20 euro per un biglietto andata e ritorno mentre i migranti pagano circa due o tre mila euro a testa per viaggiare per quattro o cinque ore di notte in una traversata di fortuna lasciandosi alle spalle tutto, le valige, le scarpe, la guerra.

Gli arrivi dalla Siria si riconoscono facilmente, sono intere famiglie con donne e bambini che fuggono da una guerra civile che si fa sempre più cruenta, mentre dall’Iraq e dall’Afghanistan arrivano anzitutto uomini, chi fugge dall’esercito o chi emigra per cercare lavoro. In entrambi i casi parliamo di paesi distrutti dalla guerra, ma solo chi viene dalla Siria ha diritto allo status di rifugiato; i migranti dall’Iraq o dall’Afghanistan vengono trattenuti per lunghe procedure di riconoscimento prima di ricevere eventualmente un visto temporaneo con il quale partire alla volta di Atene prima di mettersi in viaggio per il Nord Europa. Le procedure sono così lente e così complicate che in molti casi c’è chi strappa i propri documenti prima di imbarcarsi a Bodrum e poi tenta di presentarsi alle autorità greche con un’identità siriana, correndo il rischio poi di essere deportato nuovamente nel paese d’origine, in Afghanistan o in Iraq.

La tensione nelle isole greche è andata continuamente acuendosi negli ultimi mesi. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, un quarto di milione di profughi sono arrivati in Europa dall’inizio del 2015 e di questi più della metà sono arrivati in Grecia. Un aumento del 750% rispetto allo scorso anno, assorbito principalmente dalle isole di Lesvos, Chios, Kos, Samos e Leros. Secondo i dati diffusi dall’agenzia per i rifugiati dell’Ue, siamo di fronte a un graduale spostamento delle rotte migratorie dal Mediterraneo centrale, dalla Sicilia e Lampedusa, al mare Egeo. Uno spostamento, questo, causato da un lato dall’acuirsi della pericolosità dell’attraversamento del Mediterraneo centrale, e dall’altro dal continuo esacerbarsi della situazione di guerra diffusa in Siria, Afghanistan, Libia, Iraq e ora Turchia. Se teniamo presente questi dati è facile mettere a fuoco la situazione di estrema tensione nelle coste greche, protagoniste a un tempo di una difficile crisi economica e di quella che il Commissario all’Immigrazione dell’Ue Dimitros Avramopoulos ha definito «la peggior crisi di rifugiati dalla Seconda guerra mondiale».

È così che la scorsa settimana il sindaco di Kos George Kyritsis ha dato disposizione di stipare circa 1500 migranti nello stadio Antagoras della città di Kos. La viceministra all’Immigrazione Tasia Christodoulopoulou ha risposto con durezza all’iniziativa del sindaco, denunciandola come un tentativo di sabotare le procedure di assistenza ai rifugiati nella speranza vana di porre così fine ai flussi. La posizione repressiva del sindaco trova facile contestualizzazione nell’isola di Kos, una piccola isola di 30 mila abitanti dove l’emergenza profughi è vissuta non solo come un costo, ma come un possibile problema per il turismo, l’unica fonte di sostentamento rimasta alla popolazione. Il sindaco a sua volta ha tacciato la viceministra di incompetenza, dichiarando che se gli aiuti del governo greco avessero tardato ancora ci sarebbe stato a Kos «un bagno di sangue». Dietro a questo scambio di battute tra il ministro e il sindaco si cela il problema principale: un continuo rimpallo di responsabilità dalla Municipalità locale al governo (e viceversa) e dall’Europa al governo greco (e viceversa), a evidenziare una situazione di bancarotta resa particolarmente difficile dalla negligenza dell’Ue e da casi sporadici di razzismo istituzionale, una situazione a malapena tamponata in alcune parti della penisola ellenica dalla solidarietà e dalla capacità auto-organizzativa della popolazione.

Così lo scorso martedì la polizia di Kos ha usato gli estintori e i manganelli per reprimere l’insurrezione dei migranti nello stadio di Antagoras. Nello stadio erano allora stipati circa 1500 rifugiati – uomini donne e bambini, giovani e anziani – in una situazione di completa assenza di assistenza sanitaria, di acqua e di cibo acuita dalle alte temperature e dalla lentezza delle procedure di identificazione e di riconoscimento. Sono stati frequenti i casi di malore, durante la giornata, disidratazione, fame, attacchi di panico, tutti repressi dalla polizia in tenuta antisommossa con manganelli, estintori e gas lacrimogeni dentro lo stadio, creando una situazione di violenza che Medici senza Frontiere ha definito «preoccupante», in cui la polizia era legittimata a usare la più disinibita violenza verso una popolazione vulnerabile alla quale era negata ogni forma di assistenza.

Nei giorni successivi il governo greco è intervenuto predisponendo la partenza sulla nave Venizelos di circa 1100 rifugiati da Kos verso Atene, dove già in queste ore è in corso lo spostamento dei cinquecento rifugiati afgani e siriani dal parco di Pedio tou Areos verso il campo profughi di Eleonas. Nel fine settimana, poi, il governo ha inviato a Kos la Eleftherios Venizelos, una vecchia nave da crociera che da venerdì è attraccata in porto e che serve da centro di registrazione dei rifugiati siriani e da centro di accoglienza.

In questi giorni per chi cammini nel porto di Kos a notte tarda sembra di essere dentro un brutto film di Hollywood. Il passeggio di ciottoli che conduce al porto si affaccia sulla destra su una lunga fila di ricchi yacht miliardari dove sporadici uomini dalla pelle bianca siedono stravaccati con la musica alta e un drink nella mano, mentre solo cinquanta metri più avanti, nella parte nascosta del porto, file di rifugiati siriani attendono il loro turno per essere registrati e decine di immigrati dall’Iraq e dall’Afghanistan protestano il trattamento differenziale loro riservato.

Mentre i rifugiati siriani avranno diritto a un visto rapidamente, per chi arrivi dall’Iraq o dall’Afghanistan, infatti, non c’è risposta né assistenza. «Ma non lo sanno che c’è una guerra anche da noi?», chiedono. Così in questi giorni c’è tensione, nell’isola. Le proteste dei rifugiati iracheni sono frequenti: al porto e davanti alla stazione di polizia, ma anche nel Captain Elias Hotel, un albergo diroccato senza elettricità in cui sono attualmente ammassati decine di migranti privi di alcun tipo di assistenza salvo la solidarietà sporadica della popolazione.

Il problema, di fatto, è lo stesso in tutta la Grecia. Laddove il governo greco non ha saputo o potuto rispondere alla crisi in corso, e l’Europa ha fatto da scaricabarile, l’unica forma di assistenza ai migranti è arrivata dal basso. Si è visto nella città di Atene con la straordinaria mobilitazione della popolazione locale nel parco di Pedion tou Areos, ma si è visto anche nell’isola di Lesbos e, per contrasto, a Kos, dove per qualche tempo alcuni gruppi locali, in primis il Kos Solidarity, hanno portato acqua e cibo ai migranti del Captain Elias Hotel. L’esperienza è durata qualche settimana, arrivando a cucinare circa mille pasti al giorno, ma si è interrotta ai primi di agosto perché l’emergenza superava di gran lunga la capacità di risposta della già stremata popolazione locale. «Arrivare a vedere gratitudine perché si riceve una bottiglia d’acqua è un’esperienza disperante», hanno detto gli attivisti di Lesbos, dove la popolazione si aggira intorno alle 85 mila persone e gli arrivi di rifugiati registrati, nelle sole prime tre settimane di luglio, sono stati 25 mila. Significa che,a parte la solidarietà della popolazione locale, non c’è altro.

In questi giorni lo scenario nelle isole greche è un po’ lo stesso. Lungo tutto il litorale dell’isola di Kos ci sono coperte sulla riva del mare e scatole di cartone sui marciapiedi. Non ci sono bagni né docce e le donne fanno il bagno vestite nell’acqua del mare. Chi può permetterselo riesce a dormire in un albergo. Per gli altri ci sono le panchine e le tende sulla strada. «Penso che si siano dimenticati di noi», dicono due giovani adolescenti iracheni. Forse il simbolo dell’emergenza è la grande nave attraccata al porto di Kos: una nave che non arriva mai.