Per mesi nei suoi comizi Donald Trump ha ripetuto che il suo primo giorno nello studio ovale sarebbe stato «di lavoro intenso». Mentre Hillary Clinton stilava il tradizionale programma dei primi 100 giorni, ai suoi sostenitori Trump prometteva leggi che avrebbe varato nel «day one» della sua amministrazione come quella per abrogare «con effetto immediato ogni decreto di Obama». La battuta che mandava regolarmente in visibilio le platee avrà la verifica fra 68 giorni, quando il 45mo presidente si insedierà nella Casa Bianca.

Quel fatidico venerdì 20 gennaio, Donald Trump impugnerà la penna e avrà effettivamente un bel daffare se vorrà tener fede alle promesse. Presumibilmente inizierebbe la giornata cancellando l’obamacare, l’imperfetta legge sulla previdenza con cui Obama ha comunque esteso, attraverso sussidi statali, la copertura sanitaria a metà dei 40 milioni di Americani che ne erano sprovvisti. Il congresso repubblicano presumibilmente ne approverebbe l’abrogazione immediata varando una nuova riforma. L’unico problema è che un progetto alternativo non esiste, al di la del ripristino del «libero mercato delle assicurazioni private» che riprodurrebbe l’insostenibile situazione precedente.

La seconda firma dovrebbe presumibilmente  autorizzare l’inizio dei lavori sulla «splendida, poderosa, tangibile, altissima ed impenetrabile muraglia sul confine meridionale». Il costo immane dell’impossibile grande opera richiederebbe in realtà mesi di autorizzazioni  e stanziamenti da parte di un parlamento pur amico e risulterebbe probabilmente in un clamoroso deficit pubblico (la soluzione di Trump, di «farlo pagare al Messico» si commenta da sola – oltre che dal presidente di quel paese).

Ci sono volute meno di 48 ore per Newt Gingrich, luminare neocon e papabile nuovo segretario di stato, per ammettere pubblicamente ieri  che l’idea «era principalmente uno strumento di campagna».

La disinvoltura con cui Gingrich ha archiviato la principale e solenne assicurazione del capo come «battuta ad effetto» non impedisce però che Trump possa invece tenere più facilmente fede all’annessa promessa di «cominciare dalla prima ora a rimuovere immigranti criminali dal paese». Deportare i 12 milioni di clandestini – oltre che paralizzare ampi settori dell’economia – richiederebbe un massiccio apparato militarizzato, retate e rastrellamenti, ma incrementare da subito le deportazioni è del tutto fattibile in un paese con una ricca storia di espulsioni ed internamenti. Non a caso da martedì, sulle radio in lingua spagnola, sui posti di lavoro e nei  quartieri ispanici come quelli di Los Angeles, regnano le lacrime,  l’angoscia e la rabbia che oggi si concretizzerà in una nuova grande manifestazione nel centro.

Disgusto e paura caratterizzano anche le comunità nere. Per le clamorose recrudescenze razziste sdoganate dalla vittoria di Trump (che il KKK intende celebrare con una parata in North Carolina) e per un’altra promessa da primo giorno: «porre fine immediata al crimine nelle ‘inner cities’». Non è chiaro quale decreto possa concretizzare questo impegno proferito alla convention di Cleveland, ma i residenti dei ghetti del paese  già in preda ad un’epidemia di violenza poliziesca, un’idea se la possono facilmente fare. L’autoritarismo arcigno di un presidente patito di selfie con poliziotti e fautore di «blue lives matter» non presagisce nulla di buono – a meno di  non essere titolari di azioni delle società  di carcerazione privata – schizzate alle stelle dopo l’elezione.

Poi, presumibilmente ormai nel primo pomeriggio di quel venerdì, Trump dovrebbe passare a «cessare la guerra al carbone» come da impegno  ripetuto ai minatori di Kentucky e West Virginia, come ai metalmeccanici della Ohio Valley e del Michigan. La promessa di Trump rischia di bloccare la riconversione infine avviata verso energie rinnovabili e, assieme ad un ritiro dagli accordi di Parigi, risultare catastrofico per le politiche ambientali globali. Tutto farà fuorché riaprire miniere e  acciaierie rottamate da tempo da una globalizzazione di cui Trump, con le sue fabbriche in Cina, è diretto beneficiario.
Sarà ormai tarda sera e rimarrà ancora da esaudire la promessa di annientare ISIS in 30 giorni e conciliare quel progetto col nuovo isolazionismo che potrebbe sancire invece l’uscita dalla Nato.

Anche le telefonate ad Ottawa e Città del Messico per comunicare l’annullamento dell’accordo di commercio interamericano Nafta sono sull’agenda, come la sospensione del programma (già esiguo) di accoglienza per profughi siriani e la diffida ufficiale a Pechino sulla manipolazione della valuta. L’ultimo provvedimento promesso potrebbe essere quello di revocare il porto d’armi nelle scuole. Per riportare l’America indietro di cinquant’anni ci vorrà forse anche il secondo giorno.