Il passaggio da Cannes a Marsiglia attraversa un mondo proprio come ritrovarsi dai «fasti» – quest’anno piuttosto stonati – del festival sulla Croisette nelle atmosfere amicali del Fid Marseille, il Festival internazionale del documentario – rimasto solo nel nome in una selezione che da anni si orienta alla fluidità dei generi. Fid Marseille numero 32 slittato in avanti nel suo tradizionale mese di luglio – occupato appunto da Cannes – che si è aperto lunedì, con la proiezione di Mano a Mano, «duetto musicale tra Eric Cantona e Rodolphe Burger filmato da Priscilla Telmon e Mathieu Moon Saura, seguito dal concerto dei Mademoiselle, e che va avanti fino a domenica in diverse sale cittadine, l’abituale Variétés, la Baleine, il Videodrome e la «new entry» del Theatre Odeon, anche centro del festival.

SUL SITO del Fid da diversi giorni sono bene in evidenza le indicazioni sanitarie: l’apertura ha coinciso (quasi) con le nuove misure annunciate da Macron nel discorso della scorsa settimana, a cominciare dall’obbligo del Green Pass nei luoghi pubblici – da ieri si deve esibirlo per entrare al cinema e chi non lo ha deve mostrare un tampone negativo, ma i test in Francia sono gratuiti per i residenti; una decisione che ha acceso molte polemiche e proteste, e che probabilmente mira a vincere la scarsa adesione alla campagna vaccinale nel Paese. Che non riguarda solo i no vax ma è trasversale assumendo il valore di un’opposizione al governo, al controllo, all’ossessione «securitaria» che la pandemia ha accresciuto a ogni livello. Marsiglia in questo senso è quasi un laboratorio avanzato, nonostante i ventumila casi accertati l’altro ieri, qui le mascherine sono sporadiche nei bar come sugli autobus o nei supermercati e i vaccini non diffusi – per questo negli ultimi giorno le file davanti alle tende bianche dei test sono cresciute. Nessuno sembra allarmarsi troppo tra le stradine strette del vecchio centro, piene di banchi di frutta con tutti i colori dell’estate, e al porto assolato, occupato dai tavolini moltiplicati dal turismo. Sarà il mare, sarà il Mediterraneo, sarà il carattere della città – ma come notava ieri un filmmaker indiano: perché non si combatte in modo da garantire l’accesso ai vaccini ai paesi più poveri? E non si fa di questo una rivendicazione di libertà invece di pensare solo a se stessi? Bella questione.
Fid Marseille,dunque, che ha dedicato la retrospettiva a Apichatpong Weerasethakul, anche lui «sbarcato» dalla Croisette dopo il premio della giuria a Memoria – presentato anche qui all’interno di una retrospettiva (curata da Antoine Thirion) che ha permesso di tornare sui luoghi cinematografici del regista thailandese illuminando questo suo nuovo film, diverso perché ambientato in Colombia e con attori come Tilda Swinton, nel quale traduce però la su geografia politica e poetica, il suo universo in costante dialogo col mondo, la storia, la spiritualità.

NELLA BELLA masterclass «Joe» – come lo chiamano tutti – ha raccontano molto della sua infanzia in Thailandia, dei genitori medici e di quando sin da bambino alla domanda: cosa farai da grande rispondeva il cinema, e gli altri un lo prendevano increduli un po’ in giro. Questo suo amore per l’immagine e l’immaginario come dimensione nella quale sperimentare molte possibili realtà, può essere un accesso ai due concorsi, internazionale la cui giuria è guidata da Lav Diaz, e francese che ha invece come presidente Lech Kowalski, a sottolineare anche un filmare di resistenza che si dichiara prima di tutto nelle invenzioni e nelle scelte formali.
Sul tempo della poesia lavora Haruhara san’s Recorder, nel concorso internazionale, firmato da Kyoshi Sugita, giovane regista giapponese pupillo di registi quali Kurosawa e Aoyama, ai quali lo avvicina un sentimento sospeso del racconto, mai spiegato ma composto di piccole epifanie, momenti di felicità, benessere o malinconia; dividere un dolce, una confidenza, la luce di un tramonto, qualche ricordo, che qui si fanno spunto di altre storie possibili. Al centro di questo movimento c’è una ragazza, la magnifica attrice Chika Araki, che entra nel film di spalle, sulla soglia della casa che qualcuno le lascia, un ragazzo, musicista, in partenza per l’isola di Hokkaido. E lo abita presenza costante ma senza mai invaderlo, accompagnando in complicità la scrittura del regista – che si è ispirato ai testi del poeta giapponese Higashi Naoko.
L’uscio della sua abitazione sempre aperto, che ricorda l’inquadratura, viene varcato da persone diverse: la zia, lo zio che arriva sempre all’improvviso, tra i due c’è stata forse una rottura, e si sorprendono a incontrarsi lì per caso.

IL SUO AMICO regista (il «vero» regista) la filma mentre mangia e proietta le immagini sul muro della casa, quasi una «prova» di quel che vedremo dopo; nel piccolo bar dove lavora la gente si incontra e si scambia scaramantiche promesse. E mentre la figura maschile dell’inizio è ormai scomparsa (antonionianamente) arrivano anche loro sull’isola dove le attende una troupe. Cinema che si compone, fantasie che si incastrano, ma quello che è sorprendente nel film è soprattutto l’equilibrio della regia, delicata nel suo approccio al flusso di pensieri e di sentimenti, a quelle narrazioni che non si compiono ma che suggeriscono appena. Intorno il paesaggio che diviene anch’esso riflesso di uno stato d’animo e narra a sua volta di altre figure che entrano in campo, lo attraversano, ne mutano seppure per poco le traiettorie. E quel minuscolo appartamento, dove il precedente inquilino ha lasciato tutte le sue cose, anche un piccolo flauto che nessuno riesce a suonare, è un universo letterario, di gesti e scoperte impalpabili.