Nata a Bogotà nel 1977, María Ospina Pizano insegna alla Wesleyan University, negli Stati Uniti, ed è una studiosa della cultura latinoamericana contemporanea che nel 2019 ha pubblicato il saggio El rompecabezas de la memoria. Literatura, cine y testimonio de comienzos del siglo en Colombia, acuta analisi del modo in cui cinema, letteratura e testimonianze concorrono alla costruzione della memoria di un’epoca dolorosa e drammatica. Oltre che un’accademica, però, Ospina è anche una narratrice di notevole talento, il cui libro d’esordio arriva ora nelle librerie italiane nella traduzione di Amaranta Sbardella per Edicola Ediciones – piccola casa editrice dal gusto impeccabile con sede a Ortona e a Santiago del Cile – e va ad aggiungersi a quelli di tante giovani autrici latinoamericane alle quali dobbiamo, in questi ultimi anni, una nuova e sorprendente produzione letteraria.

LE SEI STORIE raccolte in Gli azzardi del corpo (pp. 144, euro 14) sono abitate da donne molto diverse per età, esperienza, classe sociale, e soprattutto dai loro corpi, che la scrittura di Ospina esplora fino a renderla quasi tangibile, servendosi di uno stile sobrio e insieme brillante, ricco di immagini e dettagli squisiti, e spingendosi fino a stabilire sofisticate corrispondenze tra il modo di esprimersi delle sue protagoniste (lettere seminate di errori, messaggi sgrammaticati, testimonianze sulla guerriglia emendate e ripensate da una redattrice decisa ad adattare il «prodotto» alle esigenze del mercato) e la loro corporeità, quasi a sottolineare la coincidenza tra diversi, e comunque profondi, tipi di esclusione.
Perché sono proprio i corpi a raccontare, una dopo l’altra, vicende e percorsi profondamente intimi, consentendo inoltre alla storia recente di una nazione tormentata di affacciarsi da strappi e fessure del telone di fondo, quello di una Bogotà che l’autrice trasforma magistralmente in personaggio.
Il primo racconto, Policarpa, è quello che meglio riflette il periodo di transizione e di incertezza oggi vissuto dalla Colombia, in vista di una pace sfuggente, fragile, spesso incrinata. Un tema difficile da eludere, che Ospina affronta attraverso la storia di una ex guerrigliera intrappolata in un programma di reinserimento che, oltre a spogliarla del nome e dell’identità, la colloca dietro la cassa di un supermercato dove il suo corpo forte e atletico si muove con lenta goffaggine.

PERSA IN UN MONDO urbano che le è estraneo, Marcela (ora divenuta Policarpa), cerca di ricostruirsi con diligenza, anche se il passato continua a inviarle nostalgici segnali: piedi che rifiutano le calzature cittadine e desiderano la comodità degli anfibi; orecchie che rimpiangono silenzi, versi di uccelli, fruscii; occhi che, nell’immenso capannone del Carrefour, guardano verso l’alto per cercare voli, alberi, pezzi di cielo; pelle segnata dalle cicatrici che non smettono di prudere, muscoli potenti che nemmeno le cure minuziose di balsami e creme riescono ad ammorbidire.
In Occasione, che insieme a Policarpa forma una sorta di dittico, la domestica Zenaida si chiede che fine abbia fatto sua sorella Marcela, arruolata anni prima nella guerriglia, e intanto, incinta di un invisibile fidanzato, accudisce il lussuoso appartamento e i figli di quella che forse è la donna di un narcotrafficante. In Salvezza di signorine una ragazza spia dalla finestra un convitto di monache e scambia lettere con un’ allieva adolescente (due solitudini che si studiano, si confrontano, danno vita a un’ossessione delusa), accompagnata dal continuo sottofondo delle voci e dei commenti degli ex guerriglieri «reinseriti», che occupano un edificio e inquietano il quartiere. In Collateral Beauty l’erede di una antica «clinica» per i giocattoli vive tra innumerevoli parti di minuscoli corpi artificiali (occhi, gambe, braccia, che richiamano le vittime smembrate negli anni della violenza) e quando parte per New York portando con sé alcune splendide bambole antiche, i doganieri le considerano possibili contenitori di droga.
Le tracce di cinquant’anni di guerra, della violenza legata al narcotraffico, del ritorno a una precaria normalità segnano, come nei o rughe o ferite o punture d’insetto, l’epidermide delle protagoniste e la superficie dei racconti. Accenni inevitabili, sommessi, che si insinuano in storie di donne in movimento, convinte che la vita sia altrove, e che trasformano il loro va e vieni in una forma di resistenza alle convenzioni, come fa Mila, l’anziana vedova in viaggio verso il mare insieme al suo nuovo feticcio: un paio di forbici chirurgiche che eliminano imperfezioni e pellicine, quasi un sostituto dell’ amica estetista che la depila, gratta via calli e duroni, le dipinge le unghie, aiutandola a coltivare un’ultima e impossibile civetteria.

OGNUNA FUGGE o fa ritorno in una città di migranti, dove la guerra ha convogliato centinaia di migliaia di persone, e cerca di intrecciare con altre donne relazioni in cui trovano posto l’accudimento, la lotta, la trasformazione, la conquista di uno spazio, il riconoscimento reciproco; per questo, forse, l’autrice ha scelto di far transitare alcuni personaggi (compreso quello di una fiera cagnolina randagia) da un racconto all’altro, così da formare una sorta di costellazione o di rete che unisce ogni vita alle altre.
Dalla misteriosa bambina che mangia la terra dei vasi in Occasione, alla vecchia signora ostaggio della guerriglia che insegna a Marcela i nomi degli uccelli tropicali, fino alla ragazza tormentata da un’invasione di insetti mordaci, tutte sono in dialogo continuo col proprio corpo (e con quello delle altre donne), che sin dall’infanzia hanno imparato a considerare scomodo, insufficiente, «oggetto pubblico» sottoposto alla pressione sociale e al desiderio altrui, e del quale è fin troppo facile essere espropriate.

NON È UN CASO, del resto, che in questo incrociarsi di voci la presenza e lo sguardo maschili siano quasi invisibili, solo vagamente evocati, ma non irrilevanti: proprio la loro sostanziale assenza sembra sottolineare quanto sia «interna» la lettura del corpo femminile come spazio di resistenza e di azzardi, di censure e di dispute, e tuttavia deciso a non farsi divorare, perché, come dice la protagonista di La donna più piccola del mondo di Clarice Lispector, «Non essere divorati è il sentimento più perfetto. Non essere divorati è l’obiettivo segreto di tutta una vita». C’è da stupirsi che Ospina l’abbia scelta come epigrafe per il suo libro?

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«FERITE», UN’ANTOLOGIA PER GRAN VÍA
La Colombia che attraversa mappe tra violenza e nuova migrazione

Nell’edizione originale è Puñalada trapera (editorial Rey Naranjo, 2017), ossia Pugnalata alle spalle e in quella italiana Heridas, cioè Ferite (gran vía, pp. 284, euro 16): entrambi titoli perfetti per l’antologia curata da Maria Cristina Secci, autrice dell’ottima prefazione e coordinatrice di un gruppo di giovani traduttori suoi allievi. Nel volume troviamo i nomi di ventidue scrittori nati in Colombia tra il 1972 e il 1985, ben pochi dei quali già tradotti in Italia (tra tutti, da ricordare Cárdenas e l’ammirevole Margarita García Robayo) ma sempre di considerevole interesse, che con i loro racconti ci forniscono un quadro attendibile della letteratura di un paese sovrastato dall’ombra immensa di Márquez, cui è toccato l’ingrato ruolo di mettere in secondo piano, almeno agli occhi dei lettori non colombiani, alcune generazioni di autori più che eccellenti.
Il libro è una vera e propria mappa che consente di esplorare la nuova narrativa colombiana e testimonia non solo della sua buona salute, ma anche della grande varietà stilistica e tematica che la connota. Senza dimenticare alcune lezioni del passato (in primo luogo quella che ha aperto una cultura per lungo tempo «chiusa» a influenze e contaminazioni di ogni genere: apertura accentuata dal vero e proprio fenomeno migratorio che sembra coinvolgere tanti scrittori latinoamericani), i diversi autori si allontanano ciascuno a suo modo da tenaci stereotipi, adottano audaci registri linguistici e si accostano con estrema cautela al tema della violenza, che ha così profondamente segnato la letteratura colombiana: un argomento che non si può ignorare, e che tuttavia si riduce spesso a un rumore di fondo, a un dettaglio minimo, a una presenza sotterranea, raramente esplicitata. Un’antologia, in conclusione, che, come nota giustamente Maria Cristina Secci, si può definire «generazionale» e che invita gli editori a osare nuove traduzioni da proporre a lettori felicemente curiosi. (Fra. Lazz.)