Ieri sulle pagine di Repubblica il grande statista, esempio di democrazia e «amico» dell’Italia (nel corso dell’intervista la parola è ripetuta due volte a sottolineare la vicinanza tra il Cairo e Roma), il generale al Sisi, imbeccato dal direttore del quotidiano italiano Mario Calabresi e da Gianluca Di Feo, ci ha regalato una lezione diplomatica su Libia, migranti e ruolo dell’Europa. Il golpista egiziano ha avuto campo aperto per confermarsi nella crisi libica come elemento fondamentale, senza il quale ogni avventura da quelle parti appare come un grave errore (o quanto meno come un rischio).

Evidentemente questa intervista in due puntate non aveva come obiettivo quello di porre in evidenza le contraddizioni dell’Egitto di oggi. Così come è stata congegnata dimostra due cose: in primo luogo l’abilità – scontata, date le condizioni e i probabili accordi pre intervista – di al Sisi di sfruttare l’occasione. In secondo luogo ci propone la consapevolezza di un giornalismo che ormai sembra aver perso totalmente il suo status di «contropotere», in grado di mettere in difficoltà i potenti anziché stendere «arazzi fiamminghi» metaforici sotto i piedi dell’intervistato.

La seconda parte dell’intervista di Repubblica parla soprattutto di Libia (scrivono Calabresi e Di Feo, «e quando parla della situazione libica, l’esperienza del generale sembra prendere il sopravvento sulla diplomazia del capo di Stato») consentendo a un dittatore di fare sfoggio di subdola saggezza, senso dello stato e dispensare lezioncine a tutta l’Europa.

E qui sta il punto perché l’intervista permette ad al Sisi di ribadire il suo ruolo, che già conosciamo molto bene, di stabilizzazione, di argine fondamentale a tutto quanto di male può accadere in quella zona. Al Sisi diventa l’esempio supremo di contenimento della crisi, dell’estremismo islamista e argine al rischio di ulteriori migrazioni. Avvisa gli italiani sulla exit strategy, ammonisce circa una nuova Somalia (quando la Libia è dal 2011 che è diventata una Somalia), tacendo sugli elementi oscuri non solo in politica interna, quanto in quella estera, comprese le sue mire regionali per le quali da tanto tempo intesse trame e relazioni. Il riferimento a Tobruk indica una chiara strategia da parte di al Sisi, che l’Italia per altro conosce bene da tempo.

A Repubblica al Sisi dice chiaramente che un’avventura in Libia è possibile solo con l’Egitto e, in pratica, alle condizioni del Cairo (con la neanche tanto velata minaccia sul tema dei migranti: «Se non saremo capaci di dare risposte profonde a questi problemi, l’immigrazione illegale continuerà», specifica «lo statista»). Un’intervista buona, si sa, si fa sempre in due. Dev’esserci una persona capace di dire cose importanti, a fronte di qualcuno che pone domande vere, in grado di porre in difficoltà il logico atteggiamento difensivo del «potente» di turno che accetta – o propone? – di farsi intervistare.

Due giorni fa sul caso Regeni Calabresi e Di Feo hanno fornito ad al Sisi la possibilità di parlare da «padre» mostrandoci così la via che sarà percorsa dagli inquirenti. Si tratta di una strategia colma di depistaggi e volutamente comoda al regime per una verità che – ormai è palese – non arriverà mai e in fondo si tratterà di una confezione che farà comodo a quasi tutti. Intervistare al Sisi senza fare domande (le ricerche di Regeni, i sindacati, il mondo del lavoro e dell’opposizione in Egitto, la repressione messa in atto dal sistema poliziesco, i desaparecidos, i morti, le torture) non poteva che consegnarci l’immagine di un capo di Stato paterno e in grado di utilizzare il microfono fornitogli dal principale quotidiano italiano per fare sfoggio della sua magnanimità, ben sapendo di poter contare su due dati rilevanti. Innanzitutto la sua importanza geostrategica, che su questo giornale sottolineiamo fin dalla sua conquista del potere e in secondo luogo quella economica, tanto con l’Italia quanto con altri paesi.

Matteo Renzi, silente dopo la morte di Regeni, solo dopo l’intervista di Calabresi ha detto qualcosa a proposito del caso. «Parole importanti quelle di Al Sisi, ha specificato, ora si arrivi alla verità». Alla faccia della campagna di Amnesty, della famiglia Regeni e la sua ricerca della verità. E alla faccia del giornalismo come fonte di informazione e controllo dei meccanismi di potere, in grado di mettere in crisi l’autorità, anziché fornirle una ulteriore chance di imbonimento, come non ne avesse già quotidianamente abbastanza.