Custodiva l’incanto di una diva, Lucia Berlin. Quelle che circolano su di lei sono fotografie in cui la si vede ritratta in pose sorridenti, mai scomposte o inutili. La sua discreta felicità doveva forse provenirle dal successo, seppur contenuto ma ormai consapevole, della scrittura e dei primi racconti pubblicati già all’età di 24 anni nel giornale di Saul Bellow, «The Noble Savage» e in «The New Strand», in seguito per l’«Atlantic Monthly» e altre testate, alcune delle quali di trascurabile importanza.

Creatura filiforme, a proprio agio in abiti pastello mentre tiene tra le dita una sigaretta o un gatto a cui la accomuna il colore degli occhi. Distese d’acqua, trasparenti e ghiacciate che tradiscono una terra affascinante come l’Alaska in cui Berlin era nata nel 1936. E poi la direzione dello sguardo verso un punto imprecisato sufficiente a fare risaltare il profilo minuto corredato da capelli ben sistemati, i suoi ritratti che si trovano in giro risalgono agli anni Settanta e primi anni Ottanta. Pochissimi al periodo successivo.

Nonostante l’American Book Award con la sua raccolta Homesick (1991) Lucia Berlin non ha mai sgomitato, né è stata grandemente sostenuta come forse avrebbe meritato. La sua produzione letteraria è stata piuttosto discontinua e frutto di severi – e a volte assai pesanti – blackout. Certo, se dovessimo convincerci della scrittura come puro atto di superbia, sarebbe stridente immaginare una donna che ha dovuto combattere anzitutto per la propria sopravvivenza materiale come una donna abitata dal privilegio della presunzione.

Diritture anomale

Alla raccolta del ’91 ne seguono altre due, So Long (1993) e Where I live now (1999). È però negli anni Ottanta che Berlin acutizza il suo problema con l’alcolismo. Tre matrimoni disastrosi, il primo con lo scrittore Ramon Sanders. Il secondo con il pianista Race Newton che aveva problemi di tossicodipendenza, la getta forse nell’ulteriore stato di baratro con cui ha combattuto nel corso della sua vita. Infine il terzo incontro, con Buddy Berlin, che si conclude nel 1968. A questo punto Lucia Berlin si ritrova sola, con quattro figli da crescere e le conseguenze di una scoliosi pesante che l’ha trascinata dall’eta di dieci anni a indossare spesso busti di acciaio.

Dalle città minerarie in cui ha vissuto fino all’età di cinque anni, Idaho, Kentucky e Montana, Berlin si sposta dapprima insieme alla madre e alla sorella. Prima a El Paso, poi a Santiago del Cile. Così ad Albuquerque e New York in età adulta. Dal ’71 al ’94 lavora a Berkeley e a Oakland e nel ’95 comincia a insegnare all’università del Colorado. Le sue lezioni sono state amatissime, come ricorda Stephen Emerson.

È soprattutto di quel ventennio complicato che Berlin dà conto nel volume La donna che scriveva racconti (Bollati Boringhieri, pp. 464, euro 18,50 per la traduzione di Federica Aceto) che comprende una raccolta postuma in cui è compreso anche il suo famoso racconto del 1977, A manual for cleaning women, insieme ad altre 42 storie brevi, che dà il titolo alla pubblicazione americana. Quel ventennio è però cruciale, rimesta le trame d’infanzia nelle zone aspre delle miniere, si rivede ragazzina in cerca di boschi e primi apprendistati amorosi, prende parola per avviare una narrazione di sopravvivenza, attraverso lavori fra i più vari: dalla cameriera alla donna delle pulizie, dalla insegnante precaria all’infermiera e centralinista. Racconta un’America razzista e feroce, della povertà e piena di vicoli ciechi in cui alla sera andare a perdersi dietro l’ultimo drink.

Donne che amano i margini

Dire del suo alcolismo come una breve parentesi non sarebbe corretto, rimane invece sottotraccia – sia nella sua vita che nella scelta dei contenuti letterari. Come una risacca che assorbe o fa straripare la depressione, a intervalli più o meno regolari. La dipendenza dall’alcol è un passaggio dal venire meno al fluttuare per poi riemergere. Il gorgo che arriva e strozza non viene menzionato quasi mai se non come un dato ineluttabile a un certo punto, nel tremore che genera spesso sincopi circoscritte ma improvvise.

I racconti scritti da Lucia Berlin hanno lo stesso fascino di quelli composti da un’altra eccellente narratrice di storie brevi, Grace Paley. La stessa essenzialità contraddittoria che scivola giù come un Martini – qualcosa di secco, amaro e ironico come ebbe a definirlo Angela Carter commentando i Piccoli contrattempi del vivere. Ed è proprio a quei racconti del ’59 scritti da Paley con una grazia indimenticabile – vicina solo a quella di Dorothy Parker – gli scritti di Lucia Berlin sembrano prossimi. Le figure descritte da Berlin e Paley sono infatti esistenze scampate a un qualche non ben specificato disastro, loro stesse si muovono come contrattempi attraverso cui sono arrivate al mondo. Marginali, scontornano l’eccellenza di casi edificanti e memorabili, di chi lotta per qualche grande causa.

Si divertono invece con il bisturi tagliente dell’ironia senza mai crogiolarsi nelle lande desolate del pensiero, né auspicano riscatto. Arrivano quindi alla penna di Berlin già nella forma della diminuzione, della consapevolezza di un superfluo che non si intende possedere, un limite che questo presente ipertrofico non sa neppure dove stia di casa. Quell’argine, quando non si intravvede scampo, accompagnato da ulteriori stordimenti. Sagome capaci di una innata ruvidezza, si chiamano alla vicinanza, alle sofferenze e «tutte le catastrofi di Dio».

Anonimi certo adamantini che pare di conoscere da sempre, entrano a colloquiare con la parte più fragile e precaria di chi li osserva. Hanno anche loro, come Lucia Berlin, lavori spesso ingrati, sono fastidiosi e fuori misura, svengono di frequente o sono di passaggio, si spostano, si confrontano e imbastiscono discorsi sulla differenza di classe, di razza, senza per questo fare proclami né incastrarsi in gabbie teoriche.

Questioni di classe

La differenza, di classe e di razza, viene per esempio descritta magistralmente attraverso gli occhi della protagonista del racconto Manuale per donne delle pulizie – pareggiabile in intensità solo da Fammi un sorriso in cui racconta un’esperienza carceraria. Si è detto dell’ambiguità di traduzione di A manual for cleaning women là dove la donna può essere considerata lavoratrice oppure sottoposta essa stessa a una «pulizia». Tuttavia, seppure il gioco delle espressioni linguistiche nasconda semantemi sorprendenti, leggendo le osservazioni pungenti che Lucia Berlin riserva alle signore per cui ha lavorato – e per cui lavorano le altre sue compagne che ogni mattina prendono lo stesso autobus e si dirigono in posti tra i più disparati – si capisce forse che come ogni «manuale» che si rispetti le istruzioni sono comprensibili a chi si organizza il lavoro.

Il riparo delle cose

In soggettiva, vengono così dipinte tipologie di signore – padrone non solo della propria casa – che è preferibile tenere alla larga, piccoli trucchi per capire subito cosa fare e cosa non fare mai, quando e come potersene andare, come collezionare sonniferi e spezie da portare via, capire fino in fondo che l’affezione – che con il tempo potrebbe sì assumere una forma di reciprocità – è frutto di una distorta mansuetudine per la propria condizione. Eppure la scrittrice ammette di amare le case, «le cose che mi raccontano, e questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace fare la donna delle pulizie; è proprio come leggere un libro» – lo dice nel racconto intitolato Lutto.

In quegli stessi anni, di fatica e solitudine, la madre di Berlin muore (probabilmente un suicidio) e poco dopo la sua unica sorella minore, Sally, si ammala di cancro. Siamo nel ’91 e la scrittrice si trasferisce a Città del Messico per assisterla e vegliarla, come racconta lei stessa in Aspetta un attimo. Quindici anni prima, nel suo Taccuino del pronto soccorso, inserito anch’esso in La donna che scriveva racconti, confessa di non sopportare i lunghi addii e di prendere molto seriamente la morte: «la osservo da una certa distanza. Vedo la morte come una persona, a volte come tante persone insieme, che mi salutano». Sono le riflessioni a latere dell’esperienza di infermiera in cui viene descritto il rituale, fluido e silenzioso «come il sangue» che, insieme ai tendini e alle ossa, sembrano a Berlin «affermazioni solenni. Resto senza parole davanti al corpo umano, alla sua capacità di resistenza».

Dolori amorosi

Questa sorta di onnipotenza maniacale dettata dal pensiero che «si possa aggiustare ogni cosa, oppure no» fa da sponda con un’altra cronaca ospedaliera, Temps perdu: «immaginate che il nostro corpo sia trasparente, come l’oblò di una lavatrice, che meraviglia poter osservare noi stessi. Quelli che fanno jogging correrebbero con maggiore lena, il sangue pomperebbe con vigore. Gli amanti amerebbero di più. Per la miseria! Guarda come scorre il seme»!

E a scorrere lungo i bordi è anche la vita, nelle lavanderie a gettoni del primo racconto in cui le scritte che si leggono in strambi adesivi sono le stesse delle metropolitane o degli uffici pubblici. Ammonimenti di rassegnazione di amori patetici, o in Carpe diem tra assistenti come Ophelia, torreggiante sibilla nera. Così nel racconto in forma epistolare Cara Conchi che prevede una serie di lettere brevissime a un’amica sulla sua esperienza alla università di New Mexico. Dettaglia di Charlie Parker e Patsy Cline, di come sia stato intenso leggere Jane Austen, «la sua scrittura è come la musica da camera, ma reale, e divertente allo stesso tempo». L’occhio disadorno di Berlin riflette sulle piccole cose, sull’ostinazione di trasformare ogni minuzia in una litania di nomi semplici. Quelli che dicono la frattura del mondo e fanno brillare gli occhi di una commossa e alcolica disperazione. Il resto è automatismo che porta a una metropolitana forma di meditazione.