Solamente nella seconda edizione delle sue Vite Giorgio Vasari ripercorre punto per punto la carriera dell’urbinate Girolamo Genga (1476-1551). Al di là degli errori e dei disordini, ne emergono finalmente la complessità e il ruolo: la formazione nella bottega di Signorelli, lo stretto rapporto con Raffaello, gli anni trascorsi a Siena al servizio di Pandolfo Petrucci, i mesi a Roma e a Firenze e, infine, l’abbandono della pittura a vantaggio dell’architettura. Il percorso di Genga arricchisce la via verso la Maniera moderna con rapporti articolati, umanamente e geograficamente, rendendo più complessa anche la concezione vasariana sugli sviluppi di questa nuova età.
Oggi l’esperienza dall’artista urbinate, insieme problematica e affascinante, si dipana attraverso Girolamo Genga Una via obliqua alla maniera moderna, a cura di Barbara Agosti, Anna Maria Ambrosini Massari, Maria Beltramini e Silvia Ginzburg. È il quinto dei «Nuovi diari di lavoro» della Fondazione Federico Zeri (pp. 455, e 38,00): vi sono riversati gli interventi presentati in un seminario su Genga tenuto tra Bologna e Pesaro nell’estate 2016.
Tra un saggio e l’altro, nel libro si sentono rimbalzare incrementi oggettivi, riprese, suggerimenti, dubbi e opinioni non allineate con una modalità che non nasconde la natura seminariale degli interventi. Se già a Genga è stata riconosciuta, con gli studi di Roberto Longhi e Federico Zeri, un’autonomia stilistica rispetto all’influenza ingombrante di Signorelli, ora saltano definitivamente altre griglie: in un contesto socio-politico in rapida mutazione, Genga ha percorso una «via obliqua alla maniera moderna» che rende ostico qualsiasi tentativo di ricondurlo a una scuola piuttosto che a un’altra, assumendo su di sé e sulla propria sintassi gli umori di una stagione in fermento.
La scena si apre a Monteoliveto dove, in chiusura di Quattrocento, Girolamo è documentato con il proprio maestro Signorelli. Entrambi stanno probabilmente lavorando agli affreschi nel chiostro del convento, ma la mano di Genga è indistinguibile nell’omogeneità delle decorazioni signorelliane. All’inizio del Cinquecento si smarca: collabora con Timoteo Viti; si avvicina a Perugino. Lavora ancora con Signorelli a Siena prima della fine del primo decennio, in casa Petrucci, ma non è più lo stesso artista disposto a seguire pedissequamente la lezione del proprio maestro. A Siena si cominciano ad avvertire gli effetti delle brucianti novità del passaggio fiorentino di Raffaello, accolte da pittori come Andrea Brescianino e Domenico Beccafumi. Genga, trainato da quelli, comprende che gli aggiornamenti in quel senso sono vitali e non può permettersi ritardi: il partito di Signorelli, i fasti e il repertorio di Pinturicchio hanno i giorni contati. Lo dimostra con la Trasfigurazione dipinta nel 1511, oggi al Museo dell’Opera del Duomo di Siena. Firenze è vicina. Girolamo medita sugli studi di Raffaello e, come Beccafumi, come Rosso, ha probabilmente accesso allo studio di Baccio della Porta, detto Fra Bartolomeo. Questi è un ponte verso la modernità, così come lo sono le opere lasciate a Firenze da Raffaello. E già così, tra dipinti e disegni e documenti, quanto materiale per una mostra importante…
Nel capolavoro successivo, il polittico commissionato nel 1513 per Sant’Agostino a Cesena, oggi a Brera, il vecchio mondo implode. Genga, «pictore in Fiorenza», cala i personaggi – studiati nei disegni attraverso i loro ingombri, nudi, senza vesti, come ha imparato proprio da Fra Bartolomeo – in un ambiente dilatato dall’ombra. L’immaginario nato dal dialogo tra Baccio e Raffaello ha modificato il rapporto di Genga con la rappresentazione in figura, aprendogli gli occhi anche sull’attività dei pittori più giovani come Andrea del Sarto. Nell’imponente quadro di Brera (438 × 290 cm), aspro e difficile nella sua accentuazione espressionistica, il riguardante è coinvolto nel medesimo spazio della scena sacra, facendo saltare il più rigido sistema della prospettiva albertiana. In un poemetto pubblicato nel 1526, Fra Cornelio da Cesena (il frate ha un ruolo di primo piano nella stessa commissione a Girolamo), scrive che «mai non fu uisto un così bel gioiello». Nell’ancona, «pomposa, ricca, e ben ornata», monumentali «diuerse figure a color fino» sono impegnate in un dialogo serrato. Emergono disarticolate da un fondo scurissimo, mettendo in scena un’immagine a cui, a oggi, non riusciamo ancora a dare un nome definitivo: è una disputa, ma su che cosa i Santi e i Dottori della Chiesa stanno discutendo, enumerando, studiando, al cospetto della Vergine, del Bambino e di Dio Padre? L’impianto della pala è davvero nato da un suggerimento di Egidio da Viterbo, il generale dell’ordine agostiniano probabile ispiratore del programma iconografico delle Stanze Vaticane e della Cappella Sistina? Certo è che Genga vi ricerca una disarmonia calibrata e preziosa che prende forma in reazioni connesse e contrarie al classicismo montante, mostrando un’insofferenza che non si scioglie nei canoni del pacifico equilibrio raffaellesco, in stretta successione temporale alle soluzioni, sedimentate a Roma e montate al nord, di Lorenzo Lotto. Si capisce anche nei richiami alla Battaglia di Cascina nella predella – oggi divisa tra la Carrara di Bergamo, il Museum of Art di Columbia e una collezione privata –, quel sentimento d’affezione verso Michelangelo espresso a Sebastiano del Piombo, di passaggio a Pesaro nel febbraio 1529. Ma l’apice di questo tour de force d’eccentricità è nel pannello con l’Annunciazione, l’unico pezzo della grande ancona rimasto in chiesa, una specie di turbinante Lelio Orsi ante litteram.
Con il suo bagaglio raccolto tra Urbino, Siena e Firenze, Genga si mette sulla via di Roma. È in città, come il vecchio amico Sodoma, dall’inizio degli anni venti, legato ad alcuni tra i personaggi più eminenti della Nazione dei senesi. Per Santa Caterina in via Giulia, su una commissione probabilmente di Agostino Chigi rinnovata dagli eredi, sigla entro l’estate 1523 una Resurrezione di Cristo che rinnova il dialogo, ormai postumo, con Raffaello: medita sugli studi apportati dal Sanzio, morto nel 1520, per la Resurrezione della cappella Chigi in Santa Maria della Pace; studia la celebre Trasfigurazione di San Pietro in Montorio così teatrale, enfatica, nell’organizzazione dei gruppi, nell’uso espressivo della luce, dei gorghi d’ombra e dei panneggi vorticanti. Insomma, Genga chiude il momento più importante della sua carriera pittorica stemperando definitivamente i retaggi signorelliani con un’immersione profonda nel mondo di Raffaello e dei suoi creati.
Il secondo atto è ambientato nelle terre natali. Dopo una lunga incubazione in cui, per quello che sappiamo, lo studio della prospettiva e le messe in scena teatrali sono state il luogo deputato ai suoi ragionamenti sull’architettura (con ciò che significa in quegli anni la scenografia per l’uso sempre più smaliziato della scienza prospettica, dell’apporto tecnico e dell’uso di materiali effimeri), dopo queste attività fondamentali, ma non univoche, Genga diventa architetto alla corte di Francesco Maria Della Rovere. Con il suo nuovo ruolo, e soprattutto nella progettazione dell’Imperiale di Pesaro, Genga definisce l’indirizzo culturale del ducato coordinando artisti scelti e messi all’opera gomito a gomito – Camillo Mantovano, Raffaellino del Colle, Francesco Menzocchi, Bronzino, i due Dossi, probabilmente Nicolò dell’Abate e Pordenone – ai quali continua a fornire disegni tenendo insieme, presto coadiuvato dal figlio Bartolomeo, un progetto aggiornato sulle sofisticatezze della Maniera non facile da dirimere nei tempi, nelle mani, nei rapporti di forza (nel libro non mancano, in questo senso, spunti e chiarimenti). Pesaro diventa così un crocevia come lo sono negli stessi anni i cantieri gonzagheschi a Mantova o villa Doria a Genova, percorso da artisti e maestranze con una consequenzialità inusitata, sul campo di una gara, senza vincitori né vinti, tra arte e natura.