Come fosse una psicoanalisi del profondo di un intero continente, un inaspettato romanzo coloniale fuori dalle convenzioni del film storico Zama segna un grande ritorno di Lucrecia Martel al lungometraggio dopo un considerevole numero di anni. La regista argentina dei celebrati La cienaga e La niña santa che diede corpo agli anni della crisi del suo paese con una bruciante abilità, dopo La mujer sin cabeza (2009) ha lavorato a lungo a questo progetto così profondo nella sua impostazione da aver bisogno di una coproduzione allargata a vari paesi latini (Brasile, Messico) ed europei (come El deseo di Almodovar). «Volevamo fare un film di frontiera – dice – Non so se si può parlare di diritti umani rispetto alle lingue, ma sembra che oggi un progetto ambizioso possa essere girato solo in inglese». Qui si intreccia spagnolo, portoghese e la lingua tupi degli indios. Attraverso le vicende di don Diego de Zama, funzionario della corte spagnola del XVII secolo approfondisce le radici di un continente, i legami non ancora spezzati con il colonialismo, i rapporti culturali con l’Europa che a lungo sono stati linee guida, alimento e punti di riferimento.

Ma traccia anche il profilo di personalità e comportamenti contemporanei con una bruciante attualità rispetto ai rapporti di potere. Il film nasce dal romanzo Zama di Antonio Di Benedetto, classico della letteratura argentina scritto nel 1956 che racconta in prima persona una situazione di stallo, quasi di deportazione. Un «Deserto dei Tartari» in riva al fiume, romanzo d’avventure non dei tempi eroici ma della decadenza: don Diego de Zama è confinato in Paraguay e lì rimane anno dopo anno senza poter ottenere la promozione che lo riporterebbe a Buenos Aires dalla sua famiglia. Una condizione desolata di solitudine e pena che lo porta a sfiorare il desiderio senza mai poterlo raggiungere (a parte un figlio avuto da una indigena), a cercare di mantenere alto il suo concetto di onore e dignità del suo incarico, soccombere di fronte al superiore in grado. Forse la sua condotta illuminata e non violenta nei confronti degli indios, lo costringono in quella posizione, facendogli via via perdere tutto quel poco che ha, la casa, l’amante solo desiderata che un sottoposto più «picaro» gli porta via così come la promozione.

Per riconquistare l’onore si mette alla ricerca di Vicuña, un brigante di cui si favoleggia ma che nessuno ha mai catturato e sarà un viaggio all’inferno. Il film ricrea un universo ai margini, non solo quelli del regno di Spagna, ma anche della lontanissima città di Buenos Aires, di cui si possono leggere notizie sulla carta di giornale che avvolge i bicchierini fatti arrivare per deliziare le interminabili giornate afose, dove gli abiti sono solo il lontanissimo ricordo della pompa delle corti e dei salotti di Buenos Aires, con le parrucche da indossare anche con l’afa insopportabile e le marsine preziose che ormai cadono a pezzi.

Un ritratto di provincia che si legge in controluce, preziosi brandelli di vita che la regista riporta forse dalla sua regione di origine del nord, Salta, per proiettarla in una zona ancora più lontana dalla capitale nello spazio e nel tempo dove i rumori del campo sono dominanti. Diego de Zama è espresso con antico lignaggio da Daniel Gimenez Cacho, attore spagnolo naturalizzato messicano, interprete di Cronos di Benicio Del Toro, La mala educacion di Almodovar e di due film di Alfonso Cuaron, la bella e inavvicinabile donna Luciana Piñares de Luenga è l’attrice spagnola Lola Dueñas, Vicuña è l’attore brasiliano Matheus Nachtergaele: l’intreccio di paesi e di lingue presenti sul set ci rimanda a un vecchio e mai realizzato sogno di unità di un continente che ha come comune denominatore d’origine la conquista e lo sterminio, e dove i concetti di patriottismo, di nazionalismo, di identità sono fortissimi.

Lucrecia Martel già maestra nel mettere in scena destini votati alla lenta disfatta, qui riesce nel compito ambizioso di allargare il campo a una rimessa in discussione di costanti che si sono tramandate nei secoli, sfida la rassegnazione, la corruzione, i privilegi, la burocrazia, la violenza e lo fa con una messa in scena sempre mutevole e attraente con la consapevolezza che non si sta parlando solo di diciassettesimo secolo.