Nei giorni scorsi la stampa cinese ha dedicato alcuni articoli alle trattative in corso tra Mosca e Pechino per la vendita, da parte della Russia, del sistema missilistico antiaereo S-400. Le trattative sono in corso da anni, ma come per l’accordo sul gas, pare che solo in questi giorni si arriverà ad una conclusione.

Ancora una volta è il prezzo, la chiave del successo o meno del negoziato (proprio come lo è stato per il gas). I sistemi S-400, per intenderci, «sono in grado di contrastare tutte le armi di attacco aereo, compresi velivoli tattici e strategici, missili balistici e gli F-35 statunitensi», ha scritto il quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post. La notizia ha preoccupato non poco l’area asiatica. Il Giappone naturalmente, ma anche l’India, controparte d’area che non vede proprio con entusiasmo questo potenziale asse sino-russo.
Ma le ripercussioni – e le motivazioni di questo avvicinamento – riguardano anche la crisi ucraina.

Tramite il rafforzamento dell’alleanza con la Cina, Putin si è liberato, al momento, del fardello orientale, stringendo una vicinanza con Pechino, utile soprattutto in chiave anti occidentale e anti Nato. In una crisi come quella ucraina, tracimata ormai in una guerra aperta, avere come alleato la Cina, è fondamentale anche per gli scontri diplomatici, che finiranno per interessare anche altre zone del mondo.

Nel frattempo gli analisti internazionali si chiedono cosa potrebbe accadere. Un’idea chiara non c’è, si procede a valutazioni di carattere generale, cercando di analizzare le mosse fin qui compiute. Di Putin si sottolinea l’astuzia e la capacità di improvvisare; la Russia ha saputo cogliere ogni momento propizio per compiere le proprie mosse.

Alcuni ritenevano che Mosca avrebbe perfino consentito all’esercito ucraino di massacrare i ribelli, per poi intervenire. Invece Mosca, con la consueta metodologia che prevede l’uso di pochi soldati, volontari, ha riportato la guerra a proprio vantaggio, con l’apertura del fronte meridionale che potrebbe unire l’enclave del Donbass in mani ai filorussi, alla Crimea e successivamente alla Transnistria. Un «recupero» di quanto ritenuto proprio, ma sfuggito dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica. Non è detto che tutto questo accada.

Nella tattica di Putin, infatti, potrebbe esserci la volontà di portare lo scontro al livello di «frozen conflict», (come spiega Mark Adomanis su Forbes). Un «conflitto bloccato», capace di durare anni senza soluzioni di pace, ma capace di allontanare ipotesi peggiori (ad esempio l’entrata dell’Ucraina nella Nato). In questo caso, come sottolineato da Foreign Policy, la strategia di Putin, consisterebbe proprio «nel non avere una strategia». Jonathan Eyal, di un think tank inglese, ha sottolineato che «Putin vuole un’Ucraina fallita e divisa, incapace di entrare a pieno nella sfera di influenza europea»: quindi tutto quanto farà Putin, sarà fatto per ottenere questo risultato.

Se servirà, conquisterà altri territori (secondo alcune riviste militari ai russi basterebbero 5mila uomini per fare propria l’area di Donetsk e Lugansk), altrimenti si limiterà a un migliaio di uomini (un numero irrisorio per un’invasione) capaci di tenere viva la guerra a bassa intensità e logorare il potere centrale a Kiev.
E in questo momento l’Ucraina che può fare? Max Boot, un conservatore del Council of Foreign Relations, ieri ha twittato un consiglio a Poroshenko: «L’Ucraina ha bisogno di una guerriglia contro i russi».

L’ipotesi di un conflitto che trascenda quello aperto, per diventare una guerriglia, potrebbe essere uno degli scenari peggiori, per tutti, e potrebbe essere in grado di mettere davvero in difficoltà la gestione tattica da parte di Putin. A meno di nuove sorprese.