La prima immagine è un biglietto del treno, Parigi-Ginevra che Alain Cavalier tiene tra le mani mentre spiega nel fuoricampo che sta andando da una sua amica di infanzia malata da tempo per incontrarla l’ultima volta. Ha deciso di morire, di lei Cavalier parla senza riprenderla, ci dice anzi che non vuole mostrarla come è nelle ore che trascorrono insieme, nella sua casa, in quello che entrambi sanno sarà il loro addio. Vediamo il lago da lontano, in un giorno di sole, sul davanzale gli uccellini che lei ama, lo scorcio di strada al buio che il regista osserva dalla sua stanza d’albergo, frammenti di vita, frammenti di mondo. E quando, pochi giorni dopo, la figlia gli telefona per dirgli che lei non c’è più, l’immagine si ferma su una candela spenta in quell’istante, e sulla fotografia in bianco e nero di una giovane donna, l’amica anni prima bellissima. Etre vivant e le savoir – tesoro speciale (Fuori concorso) nella frenesia della Croisette – è un film che nonostante il titolo, «Essere vivi e saperlo», o forse proprio per questo ci parla della morte, ma sempre dentro la vita, e lo fa dolcemente, con la delicatezza lieve di quella prima persona cresciuta nel passaggio di Cavalier da «regista» a «filmeur» che film dopo film è anche una ricerca – e una riflessione – sul gesto del filmare.

LA MORTE come la vita fa parte della sua opera – pensiamo a Ce répondeur ne prend pas de message (1979) o allo struggente Irène (2009) – scorre nel tempo del quotidiano, tra le immagini in miniatura che la sua piccola telecamera coglie intorno a sé, anche le più banali, le sculture domestiche, gli ex-voto, gli animali feriti e curati, le nature morte che compone nel suo atelier d’artista e che davanti all’obiettivo rivelano una bellezza segreta.
Cavalier sta preparando un film insieme a Emmanuèle Bernheim, scrittrice, sceneggiatrice (Vendredi soir di Claire Denis, Sotto la sabbia, Swimming Pool di François Ozon) dal suo romanzo, Tout s’est bien passé, in cui racconta come ha aiutato suo padre a morire. Anche lei è una sua amica da tanto tempo, come aveva fatto con Vincent Lindon in Pater – dove lui interpretava il presidente della Repubblica francese e Lindon il primo ministro – Cavalier reciterà il ruolo del padre, lei di sé stessa. Il prologo era una suggestione?

I due scrivono, si scambiano idee, Cavalier non la filma, non subito almeno: ce la suggerisce nei particolari del suo appartamento, i libri, qualche fotografia, dei giochi, le mani che preparano una centrifuga tagliando le verdure con precisione. All’improvviso Bernheim scopre però di essere gravemente malata, deve operarsi, tutto si ferma, il film diviene l’attesa del regista della sua attrice, la sua ansia, la sua preoccupazione per una persona amata. Quando sta meglio Cavalier finalmente la filma, gli occhi azzurri sorridono nel primo piano all’obiettivo.
Potranno riprendere, potranno andare avanti? Sarà lo stesso film o un altro? Non c’è risposta perché Emmanuèle muore, il film deve dunque diventare a qualcos’altro, un lutto e un’assenza che le immagini non riescono a riempire. Posso vederla ogni volta che accendo lo schermo del mio computer si dice Cavalier davanti al volto dell’amica.

ALTRE IMMAGINI intanto si inseguono sullo schermo, Milano, la sala di un cinema durante le prove, il ricordo di una discussione una volta in hotel (è durante l’edizione 2017 di Filmmaker dopo la presentazione dei suoi Six Portraits XL, ndr), lui è vivo e doveva imparare per il film a morire, lei invece non c’è più, la morte può scompigliare crudelmente ogni piano, anche quelli a cui teniamo in modo speciale.
E quel filmare l’assenza, la memoria, anche la più intima di qualcuno – come accadeva appunto in Irene – che dava al cinema la possibilità di raccontarlo pure nel suo mistero, qui diviene invece quasi una dichiarazione di impotenza. Quel vuoto non si può colmare in nessun modo, resta sospeso nella realtà intorno, fissato nei gesti abituali, nell’intimità di un lutto che cerca appigli per essere affrontato, nella consapevolezza di esser rimasti qui: Etre vivant et le savoir, quasi un’ironia crudele.

IN QUESTO corpo a corpo inaspettato – e magnifico – con gli accadimenti Cavalier sembra spingere all’estremo la sua riflessione sulla natura delle immagini e sui legami possibili con il sentimento di chi le realizza: filmare la morte diviene il desiderio di superare questa assenza e, al tempo stesso la sua ineluttabilità. È un film doloroso Etre vivant et le savoir ma non di rassegnazione, illuminato da una grazia rara, in cui il «filmeur» espone sé stesso – e quella propria impotenza – con una commuovente sincerità. Cosa rimane tra quelle immagini, negli schermi e negli oggetti, nelle visioni e negli incontri? Il cinema che non è un assoluto, è un gesto forse impossibile, una pagina scritta e un’immagine negata, si può trovare ovunque nonostante tutto. Come la vita, come la morte.