«Mi interessa molto la relazione dell’arte – della fotografia – con la curiosità. Se sono fotografo è perché sono curioso e mi piace condividere con gli altri il risultato di questa curiosità», afferma Joan Fontcuberta (Barcellona 1955, dove vive e lavora). A Reggio Emilia, dove è tornato più volte a partire dal 1980, continua a subire il fascino di oggetti bizzarri, enigmatici e grotteschi intercettati nella collezione Lazzaro Spallanzani e in altre dei Musei Civici.
Nel libro Paralipomena (Silvana Editoriale, 2016) presentato in occasione dell’XI edizione di Fotografia Europea dedicata al tema La via Emilia. Strade, viaggi, confini (fino al 10 luglio), la wunderkammern diventa l’espediente per un viaggio metaforico in cui la fotografia va «in ogni direzione». Anche verso l’arte contemporanea perché i musei di storia naturale sono «una fonte inesauribile di readymade».

La sua relazione con la fotografia nasce da una mancanza di libertà. Allora la Spagna era sotto il regime di Franco…
Un lavoro serio con la fotografia arrivò solo quando ero studente universitario e mi resi conto che la macchina fotografica era uno strumento per realizzare immagini che non erano neutre. Diversamente da un disegno, la fotografia imponeva allo spettatore una sensazione di verità, riflessione. Era una trascrizione letteraria della realtà. Ma io, che conoscevo le sue possibilità di persuasione e le tecniche di manipolazione – le avevo apprese nel giornalismo e nella pubblicità – mi resi conto che era anche uno stratagemma di convincimento. Dovevo capovolgere questa forza coercitiva della macchina fotografica, facendo in modo che lo spettatore scoprisse i suoi meccanismi di persuasione, attuando come una decostruzione del procedimento stesso. Considerando che sono nato nel ’55 e Franco è morto nel ’75, ho vissuto per vent’anni – i più importanti nello sviluppo formativo di un individuo – in una dittatura dove non c’era libertà d’espressione, ma solo propaganda e censura. Quest’ultima ci obbligava a saper leggere tra le righe dell’informazione che ci veniva data. In questa situazione si sviluppò in me un’attitudine di reazione critica contro il sistema. Una risposta era nel mio rifiuto di qualsiasi forma di autoritarismo. Quindi, combattere l’aspetto autoritario della fotografia significava anche lottare contro qualsiasi altra forma di autorità. Il mio obiettivo è sempre stato quello di corrodere la scienza, la religione, la politica, i mezzi di comunicazione, il sistema dell’arte, tutte quelle strutture autoritarie che impongono una determinata gerarchia di valori. Nel mio lavoro conduco lo spettatore di fronte a queste strutture perché non si sottometta. Mi definisco l’avvocato dello scettiscismo attivo, perché il dubbio implica una reazione attiva che non subisce l’accettazione passiva.

001_Joan Fontcuberta, Museo di Storia Naturale, Università di Pavia, 2016
Museo di Storia Naturale, Università di Pavia, 2016

Il suo sito internet si apre con l’immagine del suo archivio: negativi e provini appesi al filo. Un dichiarato tributo alla fotografia ai sali d’argento che è stato il suo linguaggio per trent’anni. È sempre dell’idea che la fotografia analogica sia associata alla memoria, lì dove quella digitale sarebbe l’espressione della vitalità?
Sì, ci sono state così tante trasformazioni strutturali, concettuali, culturali e ideologiche che oggi dobbiamo chiederci se la fotografia sia così come la conosciamo o qualcosa di diverso. Se possiamo continuare a chiamare fotografia quello che facciamo con la macchina digitale, o con i telefoni cellulari. È certo che, tuttavia, ci sono componenti processuali – come la luce – che continuano ad essere presenti. Però, tutta la componente del valore ideologico, che è stata l’architettura storico-concettuale della fotografia, è scomparsa.
Ad esempio, la verità della memoria. Non abbiamo più la certezza dell’idea del documento come riflesso diretto della realtà. La fotografia è nata con il mandato di detenere un momento solenne, serviva per trattenere l’istante celebrativo. Ma è cambiata con la banalità, la massificazione. Non c’è più l’idea di solennità, né, necessariamente, una volontà di trattenere il ricordo. Il gesto, l’atto del fotografare, prevale sul contenuto. È più importante fotografare perché implica un’interazione sociale, un divertimento.

Ha più volte citato come mentore Jorge Luis Borges, insieme a Edmundo Paz Soldan e, tra gli altri, Michelangelo Antonioni. Qual è il loro contributo nel rendere la sua fotografia «un ponte con il resto del mondo»?
La mia linea di programma è un certo «artivismo mediatico». Tra i miei guru – ne ho di spirituali e intellettuali – ci sono Umberto Eco, Borges, Vilém Flusser… una serie di personaggi che compongono un bagaglio intellettuale che per me è stato determinate. Mi considero erede di una filosofia del sospetto, non tanto della tradizione germanica quanto mediterranea. Credo, infatti, che il carattere mediterraneo sia capace di ironizzare su se stesso e questa, per me, è la dimensione di una flessibilità antidogmatica che implica anche l’accettazione della contraddizione. Non potrei mai difendere il dubbio dogmaticamente, perché come dice il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset «dubita di tutto anche del fatto stesso di dubitare». Nella filosofia tedesca tutto deve combaciare e, alla fine, è tutto quadrato. A me il quadrato non piace. Il tondo sì. La curva, poi, è stata inventata nel Mediterraneo!

Anche l’idea di classificazione è implicita nel suo concetto di fotografia. Quali sono i limiti nel tentare di mettere ordine nel ritmo caotico della vita?
Io mi sento bene nel caos, è accogliente. Con mia moglie il problema è proprio questo, lei è molto ordinata e nordica, mentre io sono confusionario e caotico, ma per non perdermi ho i miei itinerari all’interno del labirinto. Credo che ci sia bisogno delle categorie per rendere stabile una certa conoscenza. Ma questo è un mandato scientifico, l’artista deve invece declinare la categoria al caos. L’arte ha molto a che fare con la salvaguardia dell’incidente e con la rivendicazione del fallimento…

010_Joan Fontcuberta, Musei Civici di Reggio Emilia, Collezione Lazzaro Spallanzani, 2015
Musei civici di Reggio Emilia, collezione Lazzaro Spallanzani, 2015

Il non concludere i progetti ha un significato particolare?
Quest’idea viene da Picasso che affermava di non terminare mai un’opera, ma semplicemente di abbandonarla. Ciò dà all’artista la libertà di continuare a dialogare con l’opera che, comunque, è indipendente da lui. L’opera termina di esistere con il pubblico. Io sono un avvocato della teoria della ricezione. Il pubblico, con la sua interazione chiude il circuito. Se il pubblico cambia, come può mutare la circostanza, anche l’opera si trasforma.

Pragmatico, concettuale, socialista anarchico. Si considera anche nostalgico?
Sì, riconosco di essere un nostalgico e difendo la nostalgia come valore. Quando il nuovo significa la distruzione dell’antico credo che sia una perdita irreparabile.

«Non posso immaginare il mondo senza la risata», ha affermato durante la presentazione di «Paralipomena» al Teatro Cavallerizza…
Mi riconosco come allievo di Umberto Eco in Il nome della rosa. La risata è rivoluzionaria, ci avvicina agli altri mentre la tristezza ci separa. Ma, disgraziatamente, la risata non gode di una buona reputazione. È un grande peccato non riconoscere l’umorismo come uno degli elementi arricchenti della vita!