Ground Zero, l’interno della chiesa in cui furono uccisi migliaia di Tutsi durante il genocidio in Rwanda, una palestra dove venivano imprigionate e stuprate le donne bosniache nel corso della guerra nei Balcani, l’interno del fuoristrada di Shawn Berry che a Jasper, Texas, uccise James Byrd trascinandolo col suo veicolo dopo averlo legato a una catena. Tutti questi luoghi dell’orrore sono stati visitati e filmati da Kirsten Johnson, direttrice della fotografia di decine di documentari, tra i quali Citizenfour di Laura Poitras e Fahrenheit 9\11 di Michael Moore. Con Cameraperson, il suo secondo lavoro da filmmaker che verrà presentato in anteprime italiana al Carbonia Film Festival, Johnson assembla e ricompone alcuni frammenti del suo lavoro da cinematographer per altri registi, ritorna su sequenze e narrative interrotte che – spiega – «nel corso degli anni le sono sempre rimaste in mente».
A questi momenti significativi aggiunge delle riprese della sua vita privata: i figli, suo padre, la madre malata di alzheimer di cui ci mostra le ceneri per poi «riportarla in vita» davanti alla telecamera, che cattura un intimo dialogo trala regista e la mamma ormai sopraffatta dalla malattia . Cameraperson è infatti un diario personale che affronta la nostalgia, il passare del tempo, ma anche e soprattutto i dilemmi di un’autrice che si è assunta la responsabilità di testimoniare, attraverso le immagini, alcune delle più grandi tragedie del nostro secolo. Come farlo è la domanda più importante posta dal documentario, diviso tra la necessità di mostrare l’orrore per scuotere le coscienze e «la regola d’oro» citata nel film dal membro di un collettivo di registi dissidenti siriani: il rispetto per la dignità umana. Johnson infatti decide di non mostrare il cadavere di James Byrd, ma solo le prove a carico del suo assassino elencate dalla pubblica accusa: i suoi pantaloni distrutti, la catena con cui fu trascinato con il fuoristrada. Allo stesso tempo il documentario di Johnson è dedicato a Mamie Carthan – la madre dell’afroamericano quattordicenne Emmett Till, ucciso in un linciaggio nel Mississippi del 1955 – che decise di tenere il feretro aperto ai funerali del figlio, lasciando che i fotografi immortalassero il suo cadavere: «un momento fondamentale nella storia americana», dice la regista.

Com’è nata l’esigenza di mettere insieme questi «frammenti» del suo lavoro? 

Nel 2012 ho dovuto rinunciare a un documentario a cui stavo lavorando su un giovane ragazzo afghano: una delle adolescenti che avevo ripreso mi ha detto di avere troppa paura di essere vista nel film. Così ho dovuto rispettare il fatto che lei si sentisse in pericolo, nonostante avessimo parlato a lungo di come la sua sicurezza sarebbe stata tutelata. Questo episodio mi ha fatto porre molte domande sulle promesse che ho fatto in passato e che forse non sono sempre stata in grado di mantenere.  Inoltre, dato che il mio progetto era andato in fumo, ho cominciato a ripensarlo. Ne ho discusso durante un laboratorio del Sundance, nel corso del quale ho anche raccontato delle immagini che avevo girato per il documentario su James Byrd, e mi è venuto il desiderio di andare a rivedere le riprese: c’erano moltissime cose che avevo scordato, come la sequenza con il pubblico ministero che mostra le prove. Le lacune nella mia memoria mi hanno posto degli interrogativi, anche di natura etica, e così ho iniziato a riguardare altro materiale che avevo girato in passato.

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Il film mette in campo anche una riflessione sulla natura del male.

Per me il concetto di male è legato alle costruzioni della religione, io invece mi interrogo sull’umanità. Per esempio mi interessa molto come la violenza esercitata sulle persone attecchisca in qualche modo dentro di loro, in un ciclo spesso inarrestabile. Nei Balcani la violenza è quasi diventata un aspetto mitologico di quei luoghi, le persone hanno la sensazione che non finirà mai. Ma anche chi pensa di avere il privilegio di vivere in un paese in cui non è mai accaduto niente del genere fa parte di una rete globale di diseguaglianze, che sono alla radice della violenza e della crudeltà. Quello affrontato dal film è un conflitto inerente alla stessa natura umana, su cui mi pongo degli interrogativi, al pari di come rappresentare i luoghi in cui questi orrori sono accaduti.

Di tutti questi luoghi, la Bosnia è quello con cui il film sembra intrattenere un rapporto particolare, e soprattutto con l’unica famiglia musulmana tornata a Foca dopo la pulizia etnica.

Sono altrettanto legata al materiale girato in altri posti, ma la Bosnia è uno di quelli in cui ho trascorso più tempo, anche perché con la famiglia del film è nato un rapporto duraturo. Girando sono rimasta più a lungo del necessario, a osservare semplicemente quella famiglia nella sua vita quotidiana – i pomeriggi in casa, le pecore al pascolo – forse perché ne avevo bisogno: ero esausta di sentire le storie di vittime di stupro. Poi sono anche tornata a mostrare loro il materiale girato, aggiungendo una dimensione ulteriore al nostro rapporto.

Ha mostrato loro anche «Cameraperson»?

Sì, ad agosto al Festival di Sarajevo. Purtroppo però la nonna della famiglia era morta poco prima. Sono venuti i suoi due figli, che non tornavano a Sarajevo da 15 anni e mi hanno detto che non avevano nessuna foto della madre. Come mia mamma «torna in vita» nel film dopo che ho mostrato le sue ceneri, la stessa cosa è successa a loro vedendo Cameraperson. Il cinema è anche magia: può viaggiare nel tempo in modo diverso dalle fotografie, che catturano e fermano solo dei momenti.

In Italia dopo la candidatura di «Fuocoammare» alla cinquina si discute molto di una supposta differenza fra documentario e cinema di finzione.

Il motivo per cui alcune persone sembrano preferire i film di finzione potrebbe essere il livello di coinvolgimento emotivo. Vedendo un film come Fuocoammare ci si continua a fare delle domande anche dopo che la proiezione è finita: su cosa ne è stato delle persone riprese, sul problema politico posto dal documentario e così via. Il comfort del piacere estetico non riesce a mettere a tacere i nostri interrogativi.