Non sappiamo se il testo di riforma elettorale approvato in commissione riuscirà a superare il passaggio in aula. Ma è opportuno soffermarsi su un aspetto apparentemente «tecnico», in realtà cruciale dal punto di vista politico. Molti si stanno chiedendo come mai il Pd abbia dato il via libera ad un sistema elettorale che, con tutta evidenza, favorisce il centrodestra: anzi, aiuta il centrodestra a superare felicemente le contraddizioni politiche in cui si dibatteva. Riepiloghiamo la questione: con l’Italicum, ma anche con il Consultellum, a concorrere sono solo le liste e per le tre componenti del centrodestra si poneva un notevole dilemma: correre ciascuno per sé, o annegarsi dentro un listone? Per Salvini, evidentemente, quest’ultima prospettiva era poco appetibile; ma, in generale, i listoni sono poco competitivi: due più due non fa mai quattro. Con il testo attuale, questo problema è risolto: ognuno corre per sé, col proprio simbolo, e i voti si sommano solo indirettamente, confluendo sui candidati uninominali, opportunamente contrattati. Le coalizioni previste dal Rosatellum sono coalizioni dai legami molto deboli: mettendosi dal punto di vista dell’elettore, la scelta continua ad essere guidata essenzialmente dal simbolo che compare sulla scheda, non dal nome (senza simbolo) del candidato uninominale.

Ebbene, perché mai il Pd accoglie questa soluzione? È un caso di auto-lesionismo? La risposta politica che emerge è chiara: perché spera di metter su, alla bell’e meglio, un simulacro di coalizione (con una lista di moderati alla sua destra, e una lista di «volenterosi» alla sua sinistra) e incentivare il voto utile, prosciugando il bacino elettorale della potenziale nuova lista di sinistra. Il ragionamento sembra plausibile: come potrebbe l’elettore di sinistra – messo di fronte alla scelta tra un candidato del centrodestra, o un candidato del M5s, e un candidato del Pd – votare per un’altra lista, facendo vincere i primi? Sembra plausibile, questo schema, ma non lo è: siamo di fronte ad un tipico caso in cui l’improvvisazione dei bricoleur elettorali conduce ad effetti perversi ed imprevisti. Un esempio della sindrome da apprendisti stregoni che, sovente, colpisce gli improvvidi riformatori elettorali.

Il voto utile, o «voto strategico», è un modello di scelta elettorale molto studiato e molto importante; ma presuppone un elemento che manca del tutto nel nostro caso: ossia, i processi di apprendimento dell’elettore, l’abitudine ad usare un sistema elettorale. Gli elettori britannici lo sanno bene: votano da oltre un secolo con lo stesso metodo, sanno benissimo se – in un dato collegio – il partito conservatore o quella laburista è in vantaggio, e possono valutare di volta in volta come spostare il proprio voto per favorire o impedire un certo risultato. E così pure lo sanno gli elettori tedeschi, con la possibilità del doppio voto (si confrontino i dati delle recenti elezioni tedesche, collegio per collegio: le percentuali dei partiti nel primo voto – maggioritario – sono notevolmente diverse da quelle del secondo voto, proporzionale, che peraltro è quello decisivo).

In Italia, oggi, a pochi mesi dal voto, manca totalmente questo presupposto, cioè l’abitudine degli elettori ad usare un sistema elettorale. I nostri riformatori stanno facendo i conti senza l’oste: cioè, l’elettore. Stanno presupponendo un elettore immaginario, un elettore perfettamente razionale, capace di fare calcoli sofisticati. Ma, come detto, la stessa struttura della scheda incentiva una logica di scelta di tutt’altro tipo: guidata essenzialmente dal simbolo del partito. Il voto utile, in queste condizioni, riguarderà un’infima minoranza di elettori super-informati.

Ha fatto molto bene perciò l’esponente di Mdp, Speranza, ad annunciare che la nuova lista di sinistra si presenterà comunque in tutti i collegi: non solo perché è giusto e inevitabile in sé, ma anche perché in questa fase di trattative, questa dichiarazione può essere un’efficace arma di dissuasione: un invito a riflettere sulle conseguenze impreviste di una riforma dettata da improvvisazione, ma anche da un eccesso di politicismo. Quando si pensa di essere troppo furbi, alla fine ci si impiglia nelle proprie stesse manovre; o, per dirla in altro modo, le volpi finiscono in pellicceria.